Ci sono operazioni discografiche “necessarie” al di là del valore artistico, ma per quanto riguarda il caso in oggetto l’importanza della proposta marcia di pari passo con l’alta qualità musicale. Mi astengo dallo scrivere ‘e non potrebbe essere altrimenti, viste le forze messe in campo' perché la storia è piena di progetti con tutte le carte in regola per essere grandi e che, invece, sono risultati deludenti se non deludentissimi, ma… insomma, ci siamo capiti: il CD + libro commercializzato venerdì scorso dalla Squi[libri] al prezzo di 16 euro – basso, specie considerando la copertina rigida e le 64 lussuose pagine – è di quelli meritevoli sotto ogni profilo. Non capita spesso di imbattersi in pubblicazioni che offrono belle canzoni e, al contempo, “fanno cultura”, puntando a mantenere vive tradizioni che rischiano di finire troppo ai margini. È però evidente che, per raggiungere un qualche tipo di obiettivo, un’opera così deve farsi notare, cosa non semplicissima in un mercato che, ben lo sappiamo, tende a privilegiare il fatuo, l’ottuso, il brutto. Ed è qui che, senza attendersi miracoli ma con convinzione, entrano in gioco queste righe.
Otello Profazio è un autentico monumento del folk nazionale. Ha avviato la sua carriera una sessantina di anni fa con i 78 giri e tuttora, con settantanove primavere alle spalle, continua a portare avanti un magnifico lavoro di recupero e propaganda delle radici del meridione: della sua Calabria (è di Rende), della Sicilia (anche tramite l’adattamento in musica delle poesie di Ignazio Buttitta), della Basilicata, della Puglia, esibendosi in Italia e all’estero. Grazie a una fama che in passato è stata notevolissima (le cronache dicono che è l’unico nostro artista folk ad aver venduto un milione di copie di un singolo disco: accadde nel 1974 con l’album “Qui si campa d’aria”), ha curato per quindici anni una rubrica settimanale su La Gazzetta del Sud, “Profaziate” della quale rendono oggi conto quattro volumi. Ed è stato lo stesso cantautore, ricercatore e divulgatore a eleggere al ruolo di suo “erede” Peppe Voltarelli, calabrese di Cosenza (che a Rende è pressoché attaccata) curiosamente nato il suo stesso giorno, il 26 dicembre, ma del 1969. Cofondatore de Il Parto delle Nuvole Pesanti, folk-rocker dei quali è stato uno dei due frontmen dal 1991 al 2005, ha quindi inaugurato una funambolica carriera solistica snodatasi in concerti, album, spettacoli teatrali, libri, film (sì, all’occorrenza è pure attore). Inevitabile che i due si incontrassero, sui palchi – è successo e succederà ancora – e in altro modo, come si è appunto verificato in ‘Voltarelli canta Profazio', dove il maestro non c’è fisicamente (ma nello spirito sì, eccome!) e dove l’allievo dà prova di poter raccogliere, con umiltà e un minimo di comprensibile emozione, il testimone che gli è stato passato.
Il prezioso apparato scritto di ‘Voltarelli canta Profazio' comprende un’illuminante introduzione di Voltarelli, i testi dei brani, un breve saggio sulle “ragioni” dell’incontro, un altro sulle belle illustrazioni di Anna e Rosaria Corcione che adornano il booklet e una nota in cui produttore Carlo Muratori illustra la filosofia degli arrangiamenti, più una manciata di spigolature. Materiale esplicativo di grande interesse che introduce alla perfezione i dieci episodi firmati da Profazio, interpretati con passione – e il giusto mix di rispetto e personalità – con il sostegno scarno ma sempre incisivo di strumenti soprattutto a corde. Si attinge un po’ in tutti i settori dell’ampio repertorio, partendo da un famosissimo mito siciliano (‘La leggenda di Colapesce') e proseguendo con un canto dedicato all’emigrazione (l’ironica ‘Qua si campa d’aria'), per poi affrontare storie popolari (‘La vecchia crapa d’agustu') e di Cosa Nostra (‘Mafia e parrini' e ‘La mafia', entrambe di Buttitta), di briganti (‘A Santo Stefano'), di sentimento (‘Amuri, amuri'), di disagio (‘A lu mè paisi', ancora di Buttitta, ‘Lamento del carrettiere', ‘Stornelli calabresi'). A dispetto dei limiti di estensione della scelta, un campionario più che eloquente dello spessore, dell’intensità e della genuinità di musiche e parole che arrivano da lontano e che non devono diventare solo reperti da museo. Un “labour of love”, quello di Peppe Voltarelli, che meriterebbe la stessa visibilità toccata al diverso – ma per certi versi analogo – ‘Canzoni della cupa‘ di Vinicio Capossela, ma il mondo è quel che ben sappiamo e dunque non andrà così. Purtroppo.