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Il rap ha ancora un serio problema con le donne

Nelle barre di tante canzoni rap, è costante un racconto di una realtà principalmente machista, con l’uomo alfa a farla da padrone e la donna, spesso oggettivizzata, e relegata a ruolo di “bitch”. Nel rispetto della libertà dell’arte e contro ogni censura, possiamo dire che questo racconto ci ha stancato?
A cura di Francesco Raiola
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Immagine tratta da "I get the bag" di Gucci Mane
Immagine tratta da "I get the bag" di Gucci Mane

Eccoci qua a parlare, ancora una volta, di sessismo e di come alcuni rapper continuino a vivere in un mondo in cui le donne sono tutte put*ane, in cui il sesso è solo quello dell'immaginario porno, con il potere maschile che sottomette quello femminile, di come, in pratica, il maschio è alfa e la donna oggetto. È una discussione che prosegue da tempo e andrà avanti ancora per molto, ma soprattutto è argomento scivoloso, perché solitamente usato da chi non ha alcun rapporto col genere (se non saltuario) per colpire in toto quello che è uno dei territori più interessanti, stimolanti della musica italiana e mondiale. Insomma, l'argomento machismo è uno dei tanti che tocca il rap, ma è anche uno di quelli che talvolta è bene affrontare.

Soprattutto quando gli effetti si ripercuotono anche al di fuori dell'album, come sa bene Margherita Vicario. La cantautrice, infatti, nei giorni scorsi aveva criticato un verso di una canzone inclusa nel nuovo album di Emis Killa e Jake La Furia ("Il mood è schivare le vipere, mettere il cazzo in queste fighe infime, finché non muoio di AIDS o sifilide" in "Sparami") scrivendo in una storia: "(…) Dai biscottini siete anacronistici, dei kamikaze anacronistici, trattatela bene la figa che è la cosa più preziosa del mondo".

In un'intervista a Fanpage.it Emis Killa ha spiegato di essere "stufo di spiegarle queste cose (…). Non c'è niente da spiegare, la gente parla così, è inutile che facciamo gli ipocriti: se vai al bar, se vai in qualsiasi ambiente, ma in realtà anche se vai in qualsiasi ufficio, sono frasi che si dicono, quando parli con l'amico… le dicono gli uomini, le dicono le donne". E aggiungendo che però "se la fa il rapper, subito ‘perché hai detto questa roba'". Ha ragione, ma il punto è che se il rapper subisce maggiori richieste di chiarimento rispetto al ragazzo per strada è perché ha un pubblico, ha una platea enorme di persone che lo ascoltano, un po' come quando al GF viene escluso Leali per aver detto "Ne*ro". Non ce ne frega niente di contestualizzare. Non sempre, almeno.

La complessità del parlare di questa cosa spesso deriva anche dal fatto che molti di questi artisti li conosciamo bene, musicalmente, e spesso e volentieri ci piacciono le loro canzoni o comunque ne apprezziamo tanti aspetti, ma quando ci si ritrova davanti a questa rappresentazione della donna cascano le braccia e ci si incazza anche perché è un topos del genere e quindi lo si ritrova praticamente sempre. Della questione, in verità, se ne sta parlando tanto in questi ultimi anni ma spesso lo si fa con una superficialità impressionante. Lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle discutendone anche in tv, difendendo la libertà d'espressione e cercando anche di spiegare quanto una canzone sia spesso come un racconto, talvolta disturbante. Ma questa storia del racconto sta diventando sovente un alibi dietro il quale nascondersi dopo aver subito critiche.

Ovviamente l'arte non si censura, ma la si può criticare. Si può criticare questo racconto che alcuni rapper fanno della donna? Sì. Si può criticare il machismo insito in una fetta di genere? Sì. E lo si può fare in modo tale da creare quantomeno una discussione tra persone adulte? Si potrebbe, si dovrebbe, ma a questo punto entrano in gioco, oltre agli artisti – che bene o male si assumono la responsabilità di quello che dicono – anche i fan. Quelli, per esempio, che stanno subissando la pagina Instagram di Margherita Vicario di offese, una shitstorm di offese sessiste che la cantante ha "denunciato", con molta leggerezza, c'è da dirlo, senza farne drammi, ma cercando di stare sul punto, in alcune storie su Instagram.

Ragazz* adult* o meno che si sentono in diritto di andare sulla pagina IG di una cantante che ha criticato una barra dei loro beniamini e insultarla: "Ti zittisco Put*ana" o "Stai scialla che Emis non lo mette il caz*o in una presa male come te", "Sparate mpetto" o il capolavoro di quello che in DM le aveva scritto, mesi fa, quanto la stimasse e poi improvvisamente "A fallita, sciacquati la bocca prima di parlare di Emis". Insomma, il punto è anche questo, veramente qualcuno ha voglia di avere fan che arrivano a fare questo, a dire questo? In quanti esprimeranno solidarietà a Margherita Vicario?

Come detto, negli ultimi anni il problema si è posto, sui giornali e nelle trasmissioni tv, ma lo si è fatto principalmente quando è avvenuto un qualche caso di cronaca e il rap e la trap  – una volta erano Marilyn Manson e il metal, prima ancora il rock ‘n' roll etc. – diventano improvvisamente argomento di discussione, soprattutto da stigmatizzare. È materiale da maneggiare con cura, affrontato troppo spesso da persone che non hanno mai ascoltato due album rap per intero o più di qualche sporadica canzoncina pop scambiata per rap. C'è voglia di semplificare, di tagliare con l'accetta, di seguire il populismo becero, senza analizzare sul serio e per bene quello che avviene nel mondo del rap (che è un mondo ampio e variegato in cui si portano avanti battaglie sociali importanti, all'estero, ma anche qui da noi). È vero, anche, però, che spesso alcuni testi rientrano in una dinamica che è difficile da scardinare, un po' come quando affrontiamo una pigrizia linguistica dovuta a millenni di società patriarcale. Ed è altresì vero che comincia a essere sempre di più – ancora di più – insopportabile dover continuare ad ascoltare questa roba. A domanda precisa i rapper rispondono, talvolta "Se non ti piace non ascoltarla" che è un po' una risposta di merda.

La risposta più onesta è quella di Emis (che piaccia o meno), perché il bello è che mai, almeno per quanto mi riguarda, qualcuno si è preso la responsabilità di dire: "Penso quello che rappo, quella storia delle donne? La penso così", ma quando arriva la domanda è sempre una questione di racconto, di storytelling, insomma, sono sempre wannabe intellettuali che raccontano la "realtà" (quale realtà, poi, vallo a capire!). Eppure, vi sveliamo un segreto, spesso e volentieri lo capiamo quando cantate la realtà, quando cantate la rappresentazione della realtà e quando semplicemente vi credete fighi. Abbiamo letto Céline, abbiamo letto libri horror/fantascienza, abbiamo letto libri, visto film e ascoltato canzoni disturbanti, conosciamo molto bene il filone pulp, anche quello italiano, anzi forse voi non avete mai letto l'attacco fulminante di Superwoobinda di Aldo Nove: "Ho ucciso i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal".

I ragazzi non sono stupidi – questa è un'altra cosa che spesso viene sottovalutata quando si fanno analisi facilone sulla "musica dei giovani" -, questi testi hanno inondato la società da sempre e fortunatamente spesso ne siamo usciti illesi, ma veramente ci interessa ancora raccontare questo modello di realtà? Veramente siamo ancora al punto in cui ci sentiamo fighi cantando di bitch e puttane? Chi ascolta non sempre ha gli strumenti per capire che quella roba è spesso rappresentazione, sono tanti i rapper gangsta che a conoscerli sono persone che di gangsta non hanno nulla (e questo vale come complimento). La scena rap e trap italiana è probabilmente una tra le più interessanti del Paese, una delle poche che ha una rilevanza anche al di fuori dei nostri confini, soprattutto se la si confronta con un pop che ristagna in tentativi spesso fallimentari, o reggaeton buoni per la stagione estiva. È quello che ci piace, ma visto che ognuno vuole giustamente il diritto di cantare quello che meglio crede, che almeno ci sia lasciato il diritto di dire che quella rappresentazione ci ha stufato, anzi ci fa schifo.

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