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Il post-cantautorato di Martino Adriani: “Sono un equilibrista della musica del sottosuolo”

Martino Adriani, il post-cantautore campano si racconta a Fanpage. Il suo ultimo singolo è uscito il 20 gennaio, si intitola lampadina ed è estratto dal suo nuovo album chiamato Occhi.
A cura di Cristina Somma
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Martino Adriani (Facebook: Martino Adriani)
Martino Adriani (Facebook: Martino Adriani)

Martino Adriani si definisce un post-cantautore, è campano e il 20 gennaio ha pubblicato il suo nuovo singolo intitolato "Lampadina", terzo estratto dal suo ultimo disco chiamato "Occhi". Ha all'attivo due dischi e nel 2019 si è esibito in un tour di oltre 50 date. Ha aperto i concerti a Lo Stato Sociale, Bugo, Giorgio Canali, Diaframma, Giorgio Poi e ha instaurato con il cantautore e chitarrista Cristiano Godano, con cui ha collaborato e ha fatto da spalla durante numerosi showcase tra il 2014 e 2015. Ha collaborato anche con il cantautore Lorenzo Kruger, regista del videoclip del singolo ‘Bottiglie di Chianti. Il musicista ai microfoni di Fanpage racconta la sua storia, la sua musica e le sue evoluzioni.

Martino, come e quando nasce la tua passione per la musica?

Avevo circa 8 anni quando, con gli occhi curiosi di un bambino, rimasi incantato guardando in TV l’esibizione dei Quintorigo a Sanremo col brano “Rospo”, di cui mi innamorai follemente (forse per “riconoscenza”, più di venti anni dopo, ho voluto dare lo stesso titolo a una mia canzone); qualche tempo dopo recuperai in soffitta una musicassetta di mio padre, “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano: l’ascoltai tutti i santi giorni per mesi e mesi; in età pre-adolescenziale ricevetti come regalo dai miei genitori la VHS del Magical Mistery Tour dei Beatles e da mio nonno una chitarra, con cui ho composto la mia prima canzone. Credo che queste siano state le prima piccole scintille d’amore verso la musica!

Un viaggio tra pop e psichedelia: come nasce Occhi?

Occhi è un album che amo definire ‘cinematografico’, in cui ogni canzone ha un’ambientazione e uno stile di produzione del tutto proprio e differente dagli altri brani. Un pop contaminato, a tratti minimale, che vuole abbracciare orizzonti non proprio convenzionali. Il tutto è legato da una scrittura sincera che spera di arrivare alle emozioni e che si lascia ispirare dalla potenza di sguardi magnetici e intriganti, teneri e dolci, cupi e bugiardi

È uscito il tuo nuovo brano, "Lampadina". Com'è nata l'ispirazione? Racconta una storia vera? 

Trascinati dal coinvolgimento, dalla passione, e spesso ammaliati e tratti in inganno da carte bellezze estetiche, rischiamo di vivere amori “artificiali” e non reali, la cui luce, che ai nostri occhi pare somigliare a quella incantevole e dorata dell’alba, è paragonabile invece a quella innaturale di una lampadina, di un led. Con “Lampadina”, canzone beffarda che parla di “idealizzazione del partner”, si prende coscienza e ci si libera dalle scorie di una relazione vissuta con una persona che, a proposito di luce, non meritava di certo quella dei nostri occhi. Sì, racconta una storia reale.

Il brano è un estratto del tuo terzo disco: "Occhi". Come e quando è nato questo album? 

Ho scritto le prime canzoni dell’album nel 2019, periodo in cui ero in tour con il mio album “È in arrivo la tempesta”, ma la gran parte dei brani è nata dalle ceneri del Covid, nei due anni successivi (ad eccezione proprio di “Lampadina”, scritta ed incisa in tempi più recenti). “Occhi” nasce dalla necessità di raccontare, con estrema sincerità, dei miei amori, dei miei, posti, dei miei mostri.

Definisci il tuo genere "post-cantautorato". Perché e cosa significa per te? 

Non sono bravo a definire o a classificare il mio genere. Di base c’è una vecchia scuola di cantautorato che però prova a staccarsi da certi tradizionalismi del “songwriting” classico, adottando soluzioni e sensibilità, se vogliamo, più tipicamente avanguardistiche. Credo sia comunque un album pop, che però mi piace definire “imbastardito”, date certe sfumature vintage, dissonanti, psichedeliche. Ecco, data la mia poca chiarezza mi sono definito post-cantautore.

La produzione artistica dei brani del tuo ultimo album è firmata da Manuele Fusaroli e Michele Guberti, producer di artisti già affermati. Quanto ha inciso la loro collaborazione nella realizzazione dei brani e com'è nato questo sodalizio? 

Ho conosciuto telefonicamente Manuele Fusaroli durante la primissima quarantena: ci siamo raccontati e gli ho girato un po' di provini “fatti in casa”. I brani gli son piaciuti e dopo qualche mese, alla prima “zona gialla”, l’ho raggiunto a Ferrara per conoscere personalmente lui e tutto il team del Natural HeadQuarter (fra questi Michele Guberti, pilastro dello studio e produttore grandioso, il cui apporto all’album è stato più che fondamentale). Una volta tracciato la strada, abbiamo inciso, per cominciare, due canzoni. Felicissimi di questo primo step, abbiamo deciso di continuare la collaborazione e nel maggio del 2021 ci siamo chiusi per circa un mese in studio per registrare l’intero album. Grazie all’estro, alla visione e all’esperienza di Manu e Michele credo che ogni singola canzone abbia avuto il suo vestito migliore! Inoltre, sono stati bravi a stimolarmi e a tirare fuori il meglio di me. È stata una grande esperienza!

In questi anni hai avuto l'opportunità di aprire concerti di artisti affermati come Bugo, Giorgio Poi, Lo Stato Sociale. Com'è stata come esperienza? 

Credo di aver imparato tanto, a livello sia tecnico che umano, da tutti gli artisti a cui ho aperto un concerto.  La cosa più bella è che con molti di loro, con cui ho avuto l’onore e il piacere di condividere non solo il palco ma anche del tempo insieme pre-post concerto, viaggi, cene, lunghe chiacchierate, si è instaurato un rapporto di amicizia e stima portato avanti nel tempo.

Com’è muoversi e resistere in un mondo in cui è cambiato il rapporto tra indie e mainstream e in cui la stessa parola “indie” ha cambiato significato?

“Indie” è per me cultura underground, e quando si parla di “indie italiano”, penso ancora alla scena degli anni ’90, quella dei CSI, Marlene Kuntz, Verdena, Bluvertigo, Aftherours. Sono loro i rappresentanti di quella che è stata la vera musica alternativa al mainstream. Poi ne sono arrivati altri nei primi 2000: Tre allegri ragazzi morti, il Teatro degli orrori, Bugo. Con l’arrivo degli anni dieci del 2000 c’è stato un exploit di pubblico e il termine “indie” è diventato, a mio avviso, sinonimo di pop. Più che musica alternativa, questa nuova scena (trovo più appropriata la definizione “it-pop”) ha utilizzato canali e strategie indipendenti e non troppo irreggimentati, per emergere. Data questa mia visione e l’ambiguità del termine “indie”, mi ricollego al significato di post-cantautorato e al mio sentirmi un ibrido: né troppo pop, né troppo indie! Come mi muovo? Come un piccolo equilibrista della musica del sottosuolo, specializzato in capriole e salti mortali!

Cosa ti aspetti dal futuro?

Per ora sono concentrato sui concerti: spero di portare il Live di Occhi il più possibile in giro per l’Italia, e soprattutto nei posti giusti.

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