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Il nuovo album di Max Pezzali: “Dedicato alla mia generazione che non ha cambiato il mondo”

Si chiama “Qualcosa” di nuovo il nuovo album di Max Pezzali che uscirà il prossimo 30 ottobre e che, in realtà, racconta perfettamente quella che è l’estetica musicale e non solo dell’ex 883. In Qualcosa di nuovo ripercorre il racconto di una generazione di periferia, che la Storia con la s maiuscola l’ha solo sfiorata.
A cura di Francesco Raiola
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Si chiama "Qualcosa di nuovo" il nuovo album di Max Pezzali che uscirà il prossimo 30 ottobre e che, in realtà, racconta perfettamente quella che è l'estetica musicale e non solo dell'ex 883. Pezzali si è ritagliato, nel tempo, il ruolo di cantore della malinconia, della nostalgia, colui che guardando con occhio lucido al passato ha raccontato la sua generazione e non solo, non senza doversi confrontare con critiche, ma anche con attestati di stima inaspettati. In questo nuovo lavoro Pezzali continua questo suo puzzle, ripercorre il racconto di una generazione di periferia, che la Storia con la s maiuscola l'ha solo sfiorata, ma che proprio per questo è riuscita a godere tanto delle piccole cose, delle amicizie, dei bar, delle piazze, insomma della periferia. Ma ci sono anche altri racconti, come quello, molto interessante, nel racconto dell'amore adulto, argomento spesso tabù nell'arte, ma che in questi ultimi anni sta scoprendo un modo interessante di racconto. Pezzali ha raccontato a Fanpage.it la nascita di quest'album, i suoi temi, ma ha anche ripercorso la sua storia, quella di chi, in fondo, ha puntato su una cosa di cui non era sicuro, la musica ("Ho capito che le cose che ti possono salvare le vite sono quelle per cui non ti sei preparato), ha parlato di come gli 883 siano diventati, loro malgrado, di culto e anche di quello che succederà in futuro con Mauro Repetto.

Ciao Max, come va?

Compatibilmente alla situazione contingente, bene, sono molto soddisfatto di questo lavoro. Certo, poteva uscire in un periodo migliore della vita, però è quello che potevamo fare.

Tu sei tra quelli che ha messo mano al lavoro durante il lockdown?

In realtà le canzoni che avevo già pronte, a parte qualcosa, fondamentalmente sono rimaste le stesse. "Qualcosa di nuovo", invece, è arrivata dopo, è stata aggiunta perché mi sono trovato veramente nella condizione psicologica di pensare che fosse fuori luogo fare uscire un album facendo finta che non fosse successo niente. Mi sembrava che mancasse qualcosa, un timbro che permettesse a me, tra dieci anni, di ricordarmi che quest'album fosse uscito in questo periodo.

Tu lo chiami l'elefante nella stanza: sarà complesso raccontare questi anni senza parlare di questa cosa, quindi come si farà?

Dipenderà tutto da come arriveremo a processarla. Pensiamo non solo a noi che facciamo delle canzoni, quindi cose che non si vedono – a parte i video -, in questi mesi a tutte le serie tv che hanno dovuto cambiare completamente i loro piani perché non puoi far finta di niente. La narrazione, in generale, subirà un cambiamento. Il vantaggio della musica è che può stringere il fotogramma, una canzone, infatti, ha il privilegio, rispetto ad altre forme di racconto, di prendere una lente più stretta e concentrarsi solo su un aspetto, su un sentimento. Ovviamente quello stesso aspetto più piccolo non è più uguale a quello che avresti provato prima, in questo senso cambierà la narrazione.

Se c'è una cosa che non cambia è la malinconia che ti accompagna: "Qualcosa di nuovo" è un lungo racconto di quello che è stato, del rapporto tra quello che c'è stato e quello che c'è oggi e anche solo il racconto della generazione di oggi.

Per me è sempre stata una forma di ossessione l'idea del guardare alla propria età dell'oro, che spesso corrisponde con la tarda adolescenza. Sai, il momento del milione di scelte davanti, in contrasto con il mondo degli adulti che porta con sé delle consapevolezze, talvolta un senso di rassegnazione che è in netto contrasto con lo spirito di quando si è giovani. Io ce l'ho sempre avuta questa cosa, alla fine anche una canzone come "Gli anni", parla di questo stesso tema, ma l'ho scritta nel 94, quando avevo 27 anni e oggi quello che mi viene in mente è: "Ma di che cazzo avevo nostalgia a 27 anni?". Col senno di poi, al te stesso di allora ti viene da dire: "Guarda che ce ne saranno molte di occasione per sviluppare un sentimento nostalgico, oggi non c'è niente da rimpiangere".

E il confronto con le nuove generazioni ti mette di fronte proprio a questi pensieri, immagino.

Questo è un altro aspetto, avendo un figlio di 12 anni il tema torna ad essere di estrema attualità: mio figlio è nato quando avevo 40 anni, non sono il padre giovane che quindi è ancora quasi contemporaneo del figlio, c'è una grande differenza d'età. Siamo due persone molto legate ma arriviamo da pianeti diversi, lui è oltre il nativo digitale, è generazione Z, se non oltre, mentre io sono uno della generazione X, che è arrivato al mondo digitale con grande entusiasmo, ma poi la cosa gli è sfuggita di mano diventando più pervasiva di quanto potessimo immaginare. È un mondo che anche se abitato pure da noi non ci appartiene completamente, e me ne rendo conto quando parlando con lui mi dice, per esempio, che una cosa che sono convinto sia fighissima viene etichettata come da boomer, quindi sei obbligato a confrontarti col fatto che facendo parte di una generazione convinta di essere cool e giovane risulti ancora più vecchio, più del nonno, per esempio, che è boomer ma se ne rende conto.

C'è questo terzetto di canzoni – 7080902000, I ragazzi si divertono e Più o meno a metà – che racconta bene quello che diciamo. Nell'ultima ho l'impressione che si descriva il bisogno continuo di inseguire la moda del momento, rendendosi, a volte, come dire…

Ridicoli!

Esatto, non riuscendo a raggiungere la nuova generazione e rischiando di perdere il pubblico fidelizzato.

Ma è quella la chiave, infatti. Vale per tutti gli aspetti della vita, io che faccio questo mestiere lo sento questo concetto dell'inadeguatezza dell'essere in mezzo e non beccare né l'uno né l'altro, specie nella musica. Ma vale per tutto e tutti e credo che sia un processo nel quale è necessario passare. Penso al delirio che abbiamo vissuto nei decenni scorsi e il modo in cui i vecchi media vedevano le nuove tecnologie: da un lato c'era chi si chiudeva – poi nella musica arrivò Napster e fu la catastrofe -, ma dall'altra parte c'è stato il bisogno di cavalcare l'oda, ma eri comunque fregato perché comunque la tua risposta non è mai adeguata, perché la dai analizzando una situazione che è già vecchia nel momento in cui inizi l'analisi.

E come se ne esce?

La grande illuminazione è che devi continuare a fare quello che sai fare: per esempio 7080902000 nasce dalla consapevolezza che ci sono decenni che continuano a ripetersi in loop, come il giorno della marmotta. Nella musica, i 70 un po' meno, però gli 80 e i 90 sono l'eterno giorno della marmotta e improvvisamente esce l'album di The Weekend… Ci sono decenni che si ripropongono perché se vuoi fare quella roba lì al massimo puoi abbellirla un po', renderla migliore, un po' meno obsoleta ma funziona comunque. Ci sono dei monoliti che sono lì per restare, in più sono anche convinto che se stai fermo vale la regola dell'orologio rotto che per due volte al giorno becca l'orario giusto.

È un album che parla di amore, ma parla di un amore in età adulta, che è un tabù, come è stato metterci mano?

Nella relazione amichevole e affettiva con mio figlio ti rendi conto che è ancora più imbarazzante dovergli raccontare l'amore, per loro è ancora la fase dell'imbarazzo. Invece siamo arrivati a un punto in cui l'amore è una categoria ampia, poi è cambiata tanto la percezione del tempo che passa – e torna il tempo che passa -: il tempo dell'amore per uno della generazione di mio padre era arrivare a 50 anni e i giochi erano fatti, o eri sposato o eri lo scapestrato, ma non erano in tanti a potersi permettere certi stili di vita. Il fatto di innamorarsi oltre i 40-45-50 e sentirsi innamorati è una cosa che va sdoganata perché è parte del nostro mondo, è l'equivalente dell'essere nella fascia di mezzo per cui non ti senti ancora con un piede nella fossa e non ti senti neanche più il giovane, quindi o ti spari o devi capire che anche là in mezzo esiste un territorio di vita normale e serenità possibile.

In "Noi c'eravamo" descrivi la tua generazione come una generazione di periferia, che non è riuscita a stare al centro della Storia.

È una generazione che non ha fatto la guerra, non ha fatto il 68, non ha fatto il 77, non ha cambiato il mondo…

Pensa, a differenza di quello che dice tuo figlio non sei stato manco boomer…

Esatto, non eravamo i boomer che hanno la possibilità di dire che sono andati a un passo così dal cambiarlo, sono generazioni che hanno visto le cose essenziali succedere e ne sono state quasi protagoniste. Io faccio parte di una generazione che già dalla giovinezza era tacciata da quelli che arrivavano prima di essere quella del riflusso, di non avere i coglioni, ci dicevano che avevamo perso la fiducia nei sacri ideali. Siamo cresciuti col complesso dei fratelli minori, del "tanto quello che si poteva fare l'hanno già fatto gli altri", con la sindrome di quello che non ha una storia interessante da raccontare. La chiave di questa canzone è che la nostra storia non è per forza interessante, non è quella di persone che hanno cambiato il mondo o hanno lottato per cambiarlo o che hanno vissuto una cosa fondamentale nell'evoluzione, ma quello che è successo dalla caduta del muro è accaduto perché è accaduto, altrove tra l'altro, noi siamo solo scesi in strada a prenderne atto, ma è accaduto nostro malgrado. Tutto quello che è successo, insomma, è successo nonostante noi e nostro malgrado, per questo siamo una generazione che non ha un racconto forte e rischia di perdere la memoria del proprio vissuto, perché è un vissuto fatto di piccole cose, del muretto, del gruppetto al bar, ma quel mondo lì ha una sua dignità perché bella, brutta, insipida, leggera è stata una storia piena di amicizia. La nostra generazione ha spostato tutto sui rapporti umani, interpersonali, abbiamo trasformato il branco in gruppo e in affetto, in sfera affettiva. Forse questo meritava di essere raccontato, poi passi il testimone a chi è venuto dopo e gli dici "Ora sta a voi", come siamo stati considerati dei coglioni noi, attenzione perché lo stesso capiterà a voi, ora sta a voi trovare la vostra narrazione.

Canti: "A 50 anni dove saremo ammesso e non concesso che ci saremo". Che diresti al Max ventenne?

Esatto, è l'idea giovanile del sacrificio sull'altare della giovinezza. Al me stesso di allora direi, vedi che la vita è più lunga di quello che immagini e soprattutto il club dei 27 è molto ristretto e quando arriverai a 26 e 11 mesi dirai ‘Cazzo, preferirei tirare dritto per un bel po'".

Ti vedevi dove sei oggi?

No, credevo che a un certo punto il mondo dell'ipocrisia del mondo adulto, della finanza, che a quell'età hai in testa in maniera confusa sarebbe finito e ci sarebbe stata una rivoluzione punk nel mondo, cosa che è accaduta, in parte, benché tutto sia stato assorbito da un'idea di cool e fashion. Oggi, quelle cose che avevano delle istanze forti e sostanziali, sono molto d'immagine, le immagini di quel mondo lì sono logo, pure Joe Strummer. Io non mi sarei mai visto in questi panni, innanzitutto di uno che faceva musica, non sapevo neanche da che parte cominciare, in più ero terrorizzato dal mondo degli adulti, perché sapevo di essere sacrificabile: non avevo una laurea, non riuscivo a trovare il mio corso di studi, quello che rappresentasse la mia natura – volevo fare Sociologia ma a Pavia non c'era, i miei non volevano studiassi fuori per una questione economica… -, tutta una serie di cose, tra cui il terrore di mia madre che diceva "Vabbè, con la maturità scientifica magari sbattendosi un po', facendo fatica, forse un posto in banca, partendo dal basso, potremmo aiutarti a trovarlo", poi in realtà è andata diversamente.

La musica che ti ha salvato dalla paura del vuoto, del nulla, della noia, quindi.

Sì, ho capito che le cose che ti possono salvare la vita sono quelle per cui non ti sei preparato. Perché qualsiasi cosa prepari mettendoti in testa di fare una strada tradizionale, preparandoti etc, sono destinate a deluderli, non andrà mai come ti aspettavi andassero. Quello che sta succedendo adesso ne è la dimostrazione, perché esistono cose che neanche i bookmaker possono prevedere, quindi per evitare la delusione devi giocare anche su tavoli che non conosci e io ho giocato su un tavolo che non conosco solo perché mi dava entusiasmo, mi dava gusto il farlo. In quel caso i bookmaker non mi davano neanche classificato e invece è andata, sono stato salvato dall'impossibile. È una cosa impossibile che mi è successa.

E pensa che a noi è successo di essere la generazione che ha visto una compilation degli 883 diventare oggetto di discussione e diatriba generazionale.

[Ride] È la follia del nostro tempo: le cose che nascono senza un costrutto, una logica, in maniera molto spontanea, quindi imperfetta, prendono strade complicatissime. Mai mi sarei aspettato che ci fossero band e artisti dell'underground più underground che conoscessero le mie canzoni…

Vabbè, dai, non esagerare, in qualche modo siete generazionali.

Sì, certo, però nascondi le prove, eventualmente sono guilty pleasure che non devi far sapere a nessuno, non puoi rendere pubblici. Invece non solo sono stati resi pubblici ma hanno trovato una dignità che le canzoni degli 883 non avevano. È una cosa che mi ha colpito tantissimo e mi ha fatto capire come le canzoni viaggino per vie misteriose e facciano il loro giro senza che tu possa farci niente.

Siamo vicini ai 30 anni da "Non me la menare", e di "Hanno ucciso l'uomo ragno", ti stai sentendo con Mauro Repetto per una reunion?

Sì, già ci sentivamo da mesi prima del lockdown, perché c'era San Siro da fare, eravamo pronti. Poi mi ha fatto ridere una cosa che mi ha detto Lodo Guenzi de Lo Stato Sociale, ovvero che il fatto che Max Pezzali annuncia due date a San Siro e subito dopo arriva una pandemia globale racconta perfettamente l'epica della sfiga degli 883. E io ho colto il lato figo della cosa, perché eravamo pronti a fare tutto, Mauro che si è esercitato con la chitarra etc e invece niente. Sicuramente faremo qualcosa quando ci sarà consentito farlo, intanto per quando ripartiremo Mauro mi ha mandato materiale suo e speriamo di poter fare qualcosa insieme, anche perché lui è davvero un genio di quelli con la g maiuscola. È uno di quelli che possono passare per pazzi se presi da una certa angolazione, ma se ti sposti di due gradi ne capisci il genio, quindi spero di poterlo testimoniare con cose sue al più presto.

Bello, anche perché alla fine esce sempre come quello che ballava e basta…

E invece no, perché lui era quello che ballava solo perché non aveva un ruolo sul palco, si è ricavato quel ruolo, in realtà lui aveva un enorme peso nella composizione, per dire, e non va dimenticato che si tratta di uno laureato in Lettere Moderne con indirizzo cinematografico, ha un posto di lavoro di altissimo rilievo e prestigio presso Disney, che non è una corporation facile da gestire, non è che gli vai a raccontare che sei quello degli 883, quindi è uno anche molto figo ed è figo parlarci, ha tanto da insegnare, però è rimasto un genio pazzo.

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