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Il (dis)amore dei Perturbazione: “Il sistema musicale è in mano a pochi e si fa poco per cambiarlo”

In tanti conoscono i Perturbazione per “L’unica”, canzone con cui parteciparono al Festival di Sanremo e che ebbe un ottimo successo. Una delle migliori pop band italiane torna alle origini con (dis)amore, un doppio concept album che racconta in 23 canzoni le varie fasi dell’innamoramento. Un album che vi riporterà al miglior cantautorato pop italiano.
A cura di Francesco Raiola
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In tanti conoscono i Perturbazione per "L'unica", canzone con cui parteciparono al Festival di Sanremo e che ebbe un ottimo successo. Forse anche troppo grande, al punto che piuttosto che trainare una delle migliori pop band italiane l'ha sorpassata a destra continuando a vivere di vita propria. Eppure, come spiega a Fanpage.it il cantante Tommaso Cerasuolo, quella canzone è servita alla band per crescere e muoversi anche in ambienti meno confortevoli e usuali per loro. Dopo aver tentato, però, la band è tornata a una sorta di dimensione più nota a loro e ai fan della prima ora che in (dis)amore potranno trovare una sorta di ritorno a casa, fatto sempre con grande classe e con una ricerca che questa volta si materializza nella struttura dell'album e della forma canzone. (dis)amore" è, infatti, un concept album che racconta le varie fasi dell'innamoramento e lo fa con 23 canzoni che giocano proprio con la forma canzone e lo fanno con enorme maestria, con la volontà di non sovraprodurre, rispecchiando la semplicità del racconto, che semplice non è ma è un'immersione che pesca nella letteratura (Ginzburg, Pavese) e musicalmente variegato (dal cantautorato pop italiano a quello inglese) visti i vari momenti che racconta, ma con una coerenza e un'identità che pochi riuscirebbero a mantenere.

La band è una di quelle che ha costruito il nuovo pop, quello con cui siamo entrati nel nuovo millennio, ponendo le basi per quello che successivamente ha permesso l'esplosione dell'It-Pop. No, niente a che vedere con Thegiornalisti e compagnia, che al massimo hanno ispirato, raccogliendo molto meno di quanto seminato. Ma questa situazione è anche quella che permette alla band di tentare e rischiare, riuscire e anche fallire. Resta, quello sì, l'amaro di un sistema musicale e radiofonico che ormai si è appiattito, spiega Cerasuolo, su un segmento musicale che è tornato a parlare a una piccola fetta di persone, giovane e social. Per fortuna, però, i Perturbazione sono tornati e se volete ascoltare come suona il miglior pop italiano ascoltate (dis)amore e recuperate anche le cose vecchie.

(Dis)amore suona come un ritorno a casa, era voluto?

Un gruppo deve costantemente muoversi e negli ultimi album c'era stata una ricerca su basso, batteria e voce, sul groove ritmico che andava più in là rispetto al nostro passato che invece nasceva dall'intreccio delle chitarre. Tutta quella roba non l'avevamo tralasciata, ma inseguivamo le nostre chimere. Questo disco si riconnette di più con quello che era il modo in cui una parte del nostro pubblico ci ha conosciuto, con "In circolo", "Del nostro tempo rubato" che sono anche i dischi di cui non ti accorgi l'importanza mentre li fai, col tempo però abbiamo capito che erano i nostri dischi imperfetti ma forse più interessanti.

Motivo per cui (dis)amore suona così diverso dalle ultime cose?

Probabilmente all'epoca rischiavamo di più, avevamo meno da perdere. Te lo dico perché "(dis)amore" ha 23 canzoni, sembra un disco lunghissimo, più di un amico che l'ha ascoltato ci aveva detto che avremmo potuto togliere qualcosa, ci abbiamo provato ma ci siamo resi conto che o si tagliava la metà o bisognava tenere tutto quello che avevamo pensato, se no sarebbe cambiato tutto il montaggio del film. L'album è nato, inizialmente, dal baule delle idee mie e di Rossano (Lo Mele, batterista della band, ndr), poi nel 2016 abbiamo fatto una trilogia di spettacoli di Natalia Ginzburg organizzato dallo Stabile di Torino, ci piaceva l'idea di scrivere per uno spettacolo teatrale e suonare dal vivo delle canzoni: "Io mi domando se eravamo noi", "Temporaneamente", "L'inesorabile" sono alcune delle canzoni del disco nate per quella cosa lì, ispirate molto dalla sua scrittura, da una scrittrice che al di là di "Lessico Familiare" ha scritto tantissimo sul tema dell'assenza. Cioè, come in "Caro Michele", c'è sempre un personaggio di cui si parla tanto ma che non c'è mai, e tutti sono collegati a quel personaggio…

Assenza che, quindi, è anche alla base del racconto delle fasi dell'innamoramento?

L'idea dell'amore e del disamore che per noi sono parte di una stessa energia, sono due facce diverse, sono come questa assenza di cui si vuole parlare. Quando abbiamo capito quella cosa lì abbiamo capito che l'arco temporale, cronologico, poteva essere quello che tiene insieme tutto e così abbiamo cominciato a segnarci le inquadrature che mancavano, abbiamo pensato ai luoghi della casa: il tinello, il salotto, la camera da letto, la cantina e abbiamo pensato che ogni luogo della casa dovesse avere una canzone. Abbiamo pensato anche a come si muovevano i personaggi in quegli ambienti, ai libri che avevano sul comodino, a come possono essere cambiate le canzoni che ascoltano. Una delle cose interessanti che succede all'inizio del "Paradiso degli amanti" è che lui o lei – non volevamo caratterizzarlo – canta una cosa che normalmente loro non ascoltano e l'altro si chiede cosa sia (e dà inizio al dubbio del tradimento, ndr). Questa è una cosa che ho preso da un amico, per dirti come si confondono il reale e l'immaginario.

Un'idea letteraria che poi appunto prende vita nell'idea musicale, non più comunissima, del concept, che in qualche modo vi distingue. Immagino che questa struttura abbia portato te, Cristiano Lo Mele e gli altri a lavorare in un certo modo anche a livello musicale, no?

Lì c'è molto lavoro di Cristiano, che lo ha prodotto. A un certo punto abbiamo fatto un autoisolamento io e lui, ci siamo messi a scrivere e basta. Una cosa che lui voleva fortemente era quella di non sovraprodurre: una volta che avevamo scritte le canzoni ci siamo chiesti: ‘Ok, come ce la facciamo a suonare questa cosa qui in quattro?. Dobbiamo tenere tutto leggero, anche le imperfezioni, non mettiamoci ad aggiustare i rullanti, se proprio non stono non lavoriamo troppo sulla voce, teniamo tutto naturale'. Questo perché ci interessava che la quotidianità e la naturalezza dei personaggi si riflettesse anche sull'aspetto musicale. Comunque sì, abbiamo trovato stimolante piuttosto che riferire tutto a noi stessi, ispirarci a una storia che ti consente anche di pescare in quello che hai vissuto tu o che hai visto.

Tra l'altro nella scrittura esci da quella che è la classica struttura pop, anche nel modo in cui immergi l'ascoltatore nella storia.

È una delle cose da cui siamo partiti una volta che abbiamo capito che quello era il gioco: quello delle micro songs, che non sono canzoncine ma quadretti da un minuto e mezzo, due, un po' come un montaggio che è interessante perché alterni i piani e alterni la lunghezza delle inquadrature. Ci sono momenti in cui ti rendi conto che serve un taglio diverso ma più breve e non ti poni il problema se c'è o meno il ritornello, non perché non ti viene, ma perché non ci serve, hai bisogno solo di tre strofe veloci che dicono quella cosa lì.

Il fatto di non essere interni al sistema da una parte ti penalizza, come sapete bene, ma dall'altra vi dà una libertà maggiore. A quel punto soppesi le cose e…?

Beh, ovviamente sarebbe bello passare in radio, ma vista la sensazione di come sono cambiate le cose negli ultimi cinque anni, come sono mutati i gusti ed è cambiata la radiofonia, abbiamo avuto la sensazione di essere rimasti abbastanza fuori da tutto quello. Non è che non ce ne freghi niente, ci sembra proprio un miraggio impossibile e forse questo ha liberato la possibilità di dirci che non abbiamo nulla da perdere. Il che è vero fino a un certo punto, perché la bellezza delle canzoni popolari è che non dovrebbero seguire tutte lo stesso gusto, altrimenti diventa glutammato musicale. Se il gusto è tutto quello di rifare i rullanti degli anni 60, certe chitarre e chiamarlo vintage, però poi tutto è quantizzato, con i soliti tappeti di synth etc alla fine sembra che suoniamo tutti uguali.

Sembra il racconto di un'evoluzione, sbagliata, di quello che prima nel 2010 era il pop: indipendente, underground, variegato. Un'evoluzione tale che ha portato a un'uniformità. Cosa è successo secondo te?

Uno dei motivi è che noi di quella generazione – che includeva band come Virginiana, i Baustelle etc – siamo stati fagocitati da quella evoluzione e da quella generazione che abbiamo contribuito a formare, volente o nolente. Sono i corsi e ricorsi della storia. Allo stesso modo, infatti, quando noi siamo usciti quelli della generazione prima potevano vederci come una cosa aliena ma in realtà eravamo formati da tutta quella generazione di Marlene, Massimo Volume, Afterhours…

Tra l'altro una generazione che, ante litteram, andava in classifica e firmava con le major…

Noi andavamo più in radio all'epoca – escludendo "L'Unica", lì c'era l'effetto Sanremo -, ma quello fa parte di un discorso fisiologico. La sensazione che ho, ascoltando tanti degli artisti nuovi, è che sono un po' ombelicali nella descrizione per forza disincantata, urbana, delle cose: devono sempre buttarla in caciara, diventa subito Tomas Milian che gioca a fare Lucio Battisti, e non riesco ad emozionarmi. Ho la sensazione che sia tanto omogenea, faticano a venire fuori le personalità, pare una cosa con tante teste. Ma sono anche anziano, è normale, dobbiamo anche toglierci di torno a un certo punto (ride, ndr).

Parlando spesso con Rossano, che con Rumore queste cose le vive quotidianamente, immagino sia fonte di discussione, no?

Sì, ma lui è il primo a dire che certe cose ci hanno proprio inghiottito e non dico che non abbiamo rosicato in certi momenti, anche se dopo un po' te ne freghi: facevamo una fatica enorme a mettere insieme bollette e aspirazioni musicali prima e faccio fatica oggi che ho dei figli, non è cambiato tanto, devo sempre sbattermi a fare certe cose per riuscire a campare, ma è sempre importante che racconti la mia cosa, ispirato dalle cose che mi nutrono.

Resta comunque paradossale che quell'epoca d'oro abbia faticato così tanto…

Questo secondo me c'entra anche il sistema della comunicazione: questo fatto di stare dietro ai like. Per dire, non è la trap in sé che mi dà fastidio, ma che una cosa grossa così parla soltanto a un frammento della società, non è trasversale. Io posso benissimo ascoltare uno che viene dal mondo del jazz ma riesce a dirmi delle cose o un cantautore folk che scrive una canzone che sa parlare al gusto popolare di un Paese. Perché la trap no? È come se una categoria ristrettissima di teen stessero condizionando l'intero sistema comunicativo, per cui se non ci sono i like, se non facciamo la diretta Instagram, siamo tutti degli sfigati.

Paradossalmente, insomma, nell'epoca della democratizzazione delle dinamiche di distribuzione e di ascolto restano comunque dinamiche particolari…

Quelli della nostra generazione han fatto figli, hanno cose da fare, ma che tempo hanno di stare lì a influenzare quella che può essere la tendenza di una radio se ci staranno i ragazzini che hanno un telefono in mano ogni giorno? Anche radio che facevano più attenzione ormai passano sempre le stesse cose, sembra che non ci sia più alcuna cura della selezione dei pezzi. Mi chiedo, insomma, perché un mezzo potente e influente come la radio debba diventare schiavo di Instagram e Facebook.

E quindi cosa resta per una band come la vostra?

Dovrebbe restare una radio che faccia attenzione, selezionatori musicali che siano direttori artistici, ma artistici veramente, con un peso specifico importante. Anche perché un po' il gusto lo fai anche tu. Chiariamoci, però, i social non sono tutti da buttare via, devi farli divertendoti, ma farla per un numero limitato di tempo e poi chiudi tutto, vivi, ricostruisci un tessuto sociale. Se diventa il fine e non il mezzo è la fine.

E quindi io mi prendo la libertà di fare un album di 23 canzoni, libere da schemi…

Assolutamente, ma non è che non ci abbiamo provato, c'era Max Casacci (produttore di Musica X) che ci diceva ‘Facciamo un pezzo di 10 singoli', ci siamo divertiti, ma ora non abbiamo più voglia di farlo.

Ma cosa vi ha portato quella canzone, quel Sanremo, quell'album, oggi?

Lavorare sulle linee ritmiche in quel modo lì, quel lavoro fatto con Max, è stato prezioso per la nostra maturazione artistica. A me quel disco piace ancora molto e mi piace "L'unica", una canzone che è andata molto più forte di noi, nel senso che se la fischietti qualcuno la conosce ma non saprebbero dirti che sono i Perturbazione. Ci ha portato la consapevolezza che noi in certi sistemi noi, ma soprattutto io, non ho la presenza, la spigliatezza, quella immediatezza e capisci che devi rispettare i tuoi limiti, la tua anima e dirti che forse ho talenti limitati che funzionano meglio lì che là.

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