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Il 1975 d’oro di Antonello Venditti

Sono passati quarant’anni meno pochi mesi da quando Venditti, con “Lilly”, agguantava quel successo di massa che perdura tutt’oggi. Impossibile non abbandonarsi ai rimpianti.
A cura di Federico Guglielmi
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Li ricordo bene, quei giorni di quarant’anni (quasi) esatti fa, “quasi” perché nel 1975 che qui si rievoca era autunno e adesso è primavera. Avevo quindici anni e chiunque, nel mio liceo, parlava di questa canzone che, assieme al 33 giri con lo stesso nome, era schizzata in vetta alla classifiche di vendita e veniva programmata spessissimo sia dalla RAI, sia dalle prime radio “libere” (“ma libere veramente”, Eugenio Finardi dixit) che proprio in quei mesi avevano iniziato a sgomitare nell’etere. Si chiamava “Lilly”, la canzone, ed era decisamente particolare: lenta, ipnotica, malinconica, con un ritornello che non era un vero ritornello, il titolo ripetuto decine di volte e un testo che, inequivocabilmente ma non pronunciando mai la parola proibita, affrontava un tema spinosissimo, la droga. Anzi, di più: il focus era sul dramma della dipendenza da eroina che all'epoca stroncava (o comunque segnava) un bel po’ di giovani vite. Ci ripenso oggi, quattro decenni dopo, e mi chiedo come un brano dalle immagini tanto esplicite e se vogliamo disturbanti sia potuto diventare una hit, in quella assurda Italia che “costringeva” Francesco De Gregori a trasformare il cancro nel cappello del mendicante arabo in “qualcosa” (ricordate “Alice”, no?) e lo stesso Venditti, sempre in questo LP (il pezzo è un’altra meraviglia, “Compagno di scuola”), a modificare un “quella ragazza che la dava a tutti meno che a te” in un più blando “che filava tutti meno che te”. Un bellissimo mistero, anche se forse la spiegazione è la più semplice e stupida: cullati dalla melodia accattivante e dal “Lilly-Li-Li”, ben pochi si ponevano il problema di cosa significasse quello che stavano ascoltando.

“Lilly” fu il primo, grande successo di Venditti, romano al tempo ventiseienne emerso dal fertile ambiente di un locale di Trastevere – il mitico Folkstudio – dove faceva combutta con i colleghi Francesco De Gregori, Giorgio Lo Cascio ed Ernesto Bassignano. Alle spalle aveva già tre album e mezzo (l’esordio, “Theorius Campus” del 1972, era in coppia con De Gregori) e un repertorio che ruotava per lo più attorno a tre soggetti, peraltro spesso sovrapposti e intrecciati: la sua amatissima città, il sentimento e questioni socio-politiche come ambientalismo (“L’orso bruno”), emigrazione (“Lontana è Milano”), vite ai margini (“Sottopassaggio”), difficoltà nei rapporti familiari (l’autobiografica, durissima “Mio padre ha un buco in gola”). “L’orso bruno”, “Le cose della vita” e “Quando verrà Natale”, pubblicati nel biennio 1973-1974, sono lavori ispirati e profondi, efficacissimi nel loro alternare evocatività e ironia (nel ‘74, “A Cristo” procurò al Nostro una folle condanna per vilipendio alla religione) al confine con il caustico. Sarò fatto male, ma anche in un altro famoso pezzo che come “Lilly” si basa sulla reiterazione del titolo, “Quando verrà Natale”, non vedo un inno alla speranza bensì una sottilissima derisione di quelli che attendono miracoli destinati a non arrivare mai.

L’exploit di “Lilly” non prosciugava la vena del cantautore capitolino, che nei ‘70 realizzava altri tre dischi: prima l’impegnato e un po’ incompreso “Ullalla” e poi l’accoppiata “Sotto il segno dei pesci” e “Buona domenica”, più immediati e quindi fortunatissimi sotto il profilo commerciale. Negli Ottanta, “Sotto la pioggia”, “Cuore” e “Venditti e segreti” offrivano ulteriori momenti di pregio accanto a cadute di tono, ma da “In questo mondo di ladri” del 1988 Venditti sprofondava in un pantano di scrittura prevedibile, musiche plastificate, atteggiamenti piacioni, canzoni che sembrano nazionalpopolari pure quando – succede ancora – trattano argomenti nient’affatto leggeri. Un apparente procedere per forza d’inerzia e non per urgenza creativa e comunicativa, come indirettamente confermato dalla dilatazione delle uscite discografiche: solo otto negli ultimi ventisette anni (più infinite antologie e live) contro le dieci e mezzo del 1972-1986, e almeno per questa parsimonia c’è da dirgli grazie. L’ultima fatica, “Tortuga”, è nei negozi da una settimana, e l’ascolto mi ha fatto rabbrividire dal raccapriccio. Lo so, era scontato, ma ad Antonello una chance non posso negarla: gli voglio bene, da quei primi ‘70 in cui sedeva regolarmente poche file davanti a me in Tribuna Tevere Non Numerata a vedere l’AS Roma, per la quale ha tra l’altro composto – il singolo uscì a cavallo fra 1974 e 1975 – un inno talmente bello da essere invidiato da qualsiasi tifoseria. Però, Antone’, lasciatelo dire: il quarantennale del tuo anno magico lo potevi festeggiare un po’ meglio.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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