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Iacampo: ‘Scriviamo troppe canzoni sul niente e ne distruggiamo la sacralità’

A ottobre Marco Iacampo è uscito con il suo nuovo album ‘Flores’, un lavoro pop che prende dalle sonorità africane e sudamericane senza perdere la bussola del suo territorio. Con il cantante abbiamo parlato della nascita di quest’album e di come la musica come lavoro non stia facendo bene alla forma canzone.
A cura di Francesco Raiola
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Quando per la prima volta un'amica mi fece ascoltare ‘Flores', il nuovo album del veneziano Marco Iacampo, la prima cosa che le scrissi fu ‘elegante'. E in questi mesi di ascolto continuo di quello che, senza dubbio, possiamo archiviare come uno degli album italiani più belli del 2015, quell'aggettivo resta una delle rare impressioni perfette nate dal primissimo ascolto di un album. Un'eleganza che è nella voce di Iacampo, ma anche nella enorme cura che il cantante mette nello scrivere i testi (in grado di giocare su vari registri stilistici) e nella capacità di mescolare alla perfezione varie influenze – dall'Africa al Sud America, senza perdere di vista la tradizione della musica leggera italiana – rimanendo chiuso nel suo studio, come ci racconta quando lo raggiungiamo al telefono per parlare un po' dell'album, in una discussione che ha attraversato i fiori, l'acqua, gli archetipi per arrivare al concetto di musica come lavoro.

Ciao Marco, prima di tutto, anche se con ritardo, complimenti per quest’album, bello ed elegantissimo. Ecco, forse elegante è il primo aggettivo che mi è venuto in mente quando l’ho sentito. Qual è quello riferito al tuo album che ti ha fatto più piacere?

Intanto il termine elegante suona parecchio, secondo me è merito dell'attenzione nella scrittura delle canzoni, ma sicuramente merito anche di Leziero Rescigno, il produttore che tutte le mie indicazioni, dal punto di vista della produzione, le ha declinate sotto quell'aggettivo. Poi ci  stato detto che è maturo – ma maturo me lo dicono da quando ero acerbo – sincero, ma anche quello lo dicono sempre, beh son tutte cose che fanno comunque piacere, sicuramente su questo l'eleganza soprattutto dal punto di vista formale ha lasciato un segno.

Hai descritto l’importanza di Flores, a partire proprio da quel nome e di come poi ti abbia, in qualche modo, seguito e influenzato – il tuo manager si chiama Paolo Naselli Flores, tra l'altro – anche in seguito alla decisione finale…

Il cognome di Paolo è stato il via, subito mi è risuonato come un nome proprio e mi piaceva che il disco avesse un nome che non fosse il mio. Ho deciso di chiamarlo così un po' anche perché da una parte richiamava l'esotismo e poi per il significato: questa fioritura, questo inaspettato che poi si rivela, come un fiore, mi sembrava quello che c'era dentro le domande che erano nel disco. Questa cosa del Flores presente nella mia vita, è venuto dopo, nel senso che è stato come dare vita a una magia, una chiave di lettura della realtà, e alla fine molte cose della vita che sono seguite si sono rivelate tramite fiori, fioriture e tantissime altre coincidenze che mi hanno stupito. Gli amici che mi sono vicini nella quotidianità sono rimasti strabiliati dalla magia che può fare il condensare molta energia su una cosa.

Non è un caso, quindi che tu faccia continui riferimenti alla primavera, alla natura…

No, non lo è ma ti giuro che non era voluto. Nella stesura del disco questa cosa non era ancora presente per cui anche in questo caso il nome è stato una sorta di imbuto, alla fine tutti gli elementi naturali che ci sono in questo disco sicuramente portano a una definizione anche naturale di una soluzione.

Vale anche per i tanti riferimenti che fai all'acqua?

Guarda, sì, quello però era cosciente, sarà che ho vissuto qualche anno con un giardino che dava sul fiume e ho passato tanto tempo a pescare e in qualche modo l'acqua era un elemento con cui avevo a che fare, e l'ho inteso anche come simbolo della fluidità, del tempo della vita che forse era l'elemento che vi era coscientemente.

Mi piace anche la varietà della costruzione dei testi: dall’associazione di immagini (‘Palafitta') alla filastrocca (‘Due due due'), fino a costruzioni più classiche. Quand’è che una canzone è finita (e come comincia)?

Penso che dietro ad ogni canzone ci sia un motivo, sia musicale che di significato, e deve essere valido. Io scrivo molto poco, quelle dell'album sono le sole canzoni che ho scritto, non ne avevo 20 tra cui scegliere; scrivo poco e penso che le canzoni che vengono fuori sono quelle che hanno un motivo reale di esistere, anzi molte volte ne scriverei anche meno, visto che di canzoni in giro ce ne sono abbastanza, al punto che sto pensando di limitare sempre di più la scrittura delle canzoni: molte volte si potrebbe addirittura lavorare sulle canzoni che si sono già scritte, rivoltarle, ad esempio. Talvolta questa cosa di dover scrivere canzoni diventa un lavoro e non rende onore a questa cosa magica, però, lavoro o meno, per creare una canzone c'è bisogno di un motivo che sia scatenante sia per quanto riguarda la musica che per le parole: deve esserci una frase accompagnata da alcune note, non per forza da accordi, che molte volte servono come un ambiente sul quale dire la propria cosa (e questo ambiente talvolta si basa su un paio di accordi) e in Flores questa cosa c'è molto. Per quanto riguarda la fine, beh è un fattore di tempo, del capire questa parabola dove va a parare.

Può essere che le canzoni siano poche perché dentro ci sei tu e bastano quelle a descrivere il tuo mondo?

Sì, scrivo molto partendo dalla mia vita e ultimamente scrivo molto più ‘dalla' mia vita che ‘della' mia vita, anche perché non sarebbe così interessante, ma se la vedo calata in un universo epico, ogni gesto, quello che mi circonda, ha a che fare con degli archetipi, ed è in quel momento che riesco a scrivere. È ovvio che quando si è parlato tanto di sé, molte volte ne basta una di canzone per parlare di come stai in un determinato periodo, di quello che stai capendo. Non ti nascondo che quella cosa delle 10 canzoni di un disco molte volte è stressante, pensa però che quando a Boubacar Traoré chiedevano cosa pensasse delle canzoni stupide occidentali, lui rispondeva: ‘In Africa non abbiamo canzoni stupide perché ogni canzone ha a che fare con qualcosa di reale'. Solo che ormai scriviamo canzoni sul niente e ci facciamo anche grosse discussioni, forse si è perso il gusto di quella cosa lì, della sacralità della canzone.

Forse c'entra proprio l'idea della musica come lavoro, di cui parlavamo prima, che porta a questo?

Sì, ma quella cosa là fa sballare tutto, perché sarebbe un lavoro, un lavoro figo anche, il fatto di dire ‘Sono quello che canta le storie in questo quartiere, in questa città, in questa Nazione', ed è un ruolo prima che un lavoro e un ruolo viene ripagato in soldi, amore o quello che è, invece è diventato un lavoro che è alla mercé di modi di fare che non hanno a che fare con la scrittura di una canzone.

Ma la musica è il tuo lavoro?

Sì, sì, certo, faccio questo e poi ho anche un'associazione che si chiama ‘Veneto Contemporaneo' con cui facciamo musica, spettacoli, più legati al teatro e al territorio: facciamo uno spettacolo di canti di montagna che sta andando molto bene al nord e che ho chiamato ‘Il blues delle Alpi'. Quelle, ad esempio, sono canzoni necessarie, di una semplicità estrema che però parlano di vita, morte, la spiritualità declinata alla visione della natura, son cose base che fanno venire i brividi.

Tornando al numero delle canzoni di cui parlavi prima, pare che questo ‘minimalismo' sia compensato da una grande varietà di suono che ha il tuo album, che è pop nell'accezione più ampia possibile ma all'interno contiene Africa, Brasile e non disdegna la tradizione italiana: come ci lavori su tutti questi suoni?

Guarda, questo lavoro è una fortuna che però non mi può portare chissà dove anche se alla fine, ho la possibilità di mostrare quello che faccio anche nel territorio in cui vivo, come succede con l'associazione di cui ti parlavo. Le mie ricerche e la mia curiosità, però, fanno sì che ogni mio viaggio mentale, su internet – restando nella mia camera -, abbiano elementi del mondo. Non avendo la possibilità di viaggiare, insomma, cerco di fare come si fa nell'abbigliamento: metti il foulard di un certo tipo, la scarpa di un altro ancora etc.. Cerco, così, anche nel mio stile chitarristico di suonare in maniera brasiliana, africana, italiana e provare, provare, finché nel ‘roteare' la musica capisco che a un certo punto sono riuscito a mettere tutto dentro: ho preso spunto da così tanti stili che alla fine si sono fusi nella mia chitarra che, va da sé, guida anche il modo in cui canto.

Che anno è stato il tuo 2015?

È stato un anno di studio. Nel fare Flores ho studiato tantissimo ad esempio la musica brasiliana, africana, il sax di Pharoah Sanders, l'elettronica di Dj Koze, vivendo un periodo embrionale più che di attività che ha avuto il suo culmine con questa schiusura di ‘Flores' il 23 ottobre.

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