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I Tre allegri ragazzi morti compiono 25 anni: “Siamo equilibristi che amano mescolare le carte”

Sono 25 anni che i Tre allegri ragazzi morti, la band formata da Davide Toffolo, Luca Masseroni, Enrico Molteni, sono una delle realtà più importanti del panorama indipendente italiano: “Difendere i mostri dalle persone” è il loro ultimo album, un disco che si muove su crinali psichedelici La band festeggerà il compleanno con un concerto a Bologna il 31 ottobre.
A cura di Francesco Raiola
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Tre allegri ragazzi morti (ph Ilaria Magliocchetti Lombi)
Tre allegri ragazzi morti (ph Ilaria Magliocchetti Lombi)

Muoversi su versanti non troppo battuti, cercare un'identità, costruirsela con forza e crearsi una reputazione che gli permette di prendere anche curve inaspettate senza che nessuno possa dirgli nulla. Sono 25 anni che i Tre allegri ragazzi morti, la band formata da Davide Toffolo, Luca Masseroni, Enrico Molteni, sono una delle realtà più importanti del panorama indipendente italiano, in grado di variare sia all'interno del progetto musicale che all'esterno, dal La Tempesta, etichetta storica della musica italiana, alle storie a fumetti di Toffolo. "Difendere i mostri dalle persone" è il loro ultimo album, un disco che si muove su crinali psichedelici, registrato come si faceva una volta. La band festeggerà i 25 anni con un concerto a Bologna il 31 ottobre, e per l'occasione abbiamo sentito Enrico Molteni.

Partiamo da questo compleanno, i Tre Allegri ragazzi morti compiono 25 anni. Una bella età per una band seminale, importantissima per il panorama, ma non mainstream?

Questa condizione intermedia è una figata, la musica che ci piace è sempre a quel livello lì, è difficile da spiegare ma è anche una condizione che non abbiamo scelto a tavolino, ha più a che fare con la passione per un certo tipo di musica alternativa. Chi ha voglia di avvicinarsi a un certo mondo, lo fa senza che questa cosa venga imposta dai media o dalla gente che ascolta musica. Riuscire a farlo per 25 anni è una prova di equilibrismo, inoltre bisogna considerare il gruppo qualcosa che va oltre le tre persone singole che lo compongono e siamo stati anche fortunati, perché ne possono succedere mille di cose, nel nostro caso siamo sempre stati molto vicini, siamo persone senza grilli per la testa e abbiamo sempre avuto una forte forma di rispetto tra di noi.

Forse ci siete riusciti anche grazie a una grossa curiosità nei confronti della musica. Siete un gruppo che ha variato anche tanto sia all'interno del progetto che all'esterno…

Siamo appassionati di musica, ma anche di come la musica funziona nella fase realizzativa: la vita dei gruppi, le grafiche, i video, i concerti, le grandi storie del rock. Siamo partiti con quello che non sembra neanche essere un riferimento etnico, ovvero quello del grunge, del punk, però andando avanti i nostri ascolti e le nostre passioni sono cambiate, penso sia una cosa naturale; il momento in cui l'abbiamo fatto notare di più è stato nel 2010, però, quando abbiamo fatto il disco reggae. Non ce l'aspettavamo neanche noi, ma è stato naturale: da anni nella nostra zona c'era un festival che si chiamava Rototom Sunsplash, che ora si fa in Spagna, ci andavamo sempre e da lì è nata una sorta di passione per il reggae, condivisa con il produttore Paolo Baldini. Abbiamo deciso di fare una cosa assieme, è stato qualcosa nato in maniera naturale, poi successivamente abbiamo scoperto come punk e reggae fossero uniti alla fine dei 70 in Inghilterra. Erano due generi ad appannaggio  appannaggio delle frange sociali della colonia giamaicana e dei meno abbienti che si incontravano e suonavano assieme per strada, e nei Clash questa unione è stata riassunta magistralmente. Quando abbiamo fatto quel cambiamento abbiamo capito che la cosa che più ci caratterizzava, più che il suono, era la scrittura, e in questo senso abbiamo immaginato di fare qualsiasi cosa e abbiamo mescolato le carte.

E con avete completato un giro, tornando alle origini con un album rock, psichedelico. Voi avete la storia per farlo, ma in un contesto che oggi tozza un po' con la parola rock.

Uno dei pochi punti di partenza di questo album era quello di tentare un cambio di produzione, di rimetterci in una stanza e suonare e poi c'era la voglia di fare una cosa diversa rispetto a quello che andavano di moda, per la nostra voglia di percorrere strade alternative. Così è venuto fuori questo disco, con i suoi pregi e difetti, certo, però è una cosa fatta con molta passione.

Leggevo che è nato in un posto magico, dove vi siete trovati tutti e tre a suonare, giusto?

Sì, siamo andato in uno studio di registrazione di Matt Bordin sul Montello, in provincia di Treviso. Era una casa in pietra nel bosco, siamo stati lì a mangiare, dormire e suonare per tanti giorni, alcune idee c'erano già, altre sono venute lì, come si facevano i dischi una volta. Oggi ci si spediscono i file, che va benissimo, però volevamo qualcosa di più… caldo, al punto che in quel periodo lì, ma anche adesso, ascolto tanta musica degli anni 60 e 70 e mi rendo conto che i dischi erano fatti così, senza troppo editing selvaggio. Noi stessi abbiamo fatto i dischi in cui ci prendeva la smania di sistemare tutto in griglia, che da un certo punto di vista funziona, ma da un'altra plastifica la percezione, con questo disco volevamo portare calore.

Senti, quando parte "Una ceramica italiana persa in California" ti chiedi da dove esca. Da dove esce? L'impressione è che sia una cavalcata nata proprio da quello che mi raccontavi.

Ti dico la verità, quasi tutti i brani avevano quella struttura lì, proprio perché eravamo a suonare e quando trovi un giro, un groove che ti piace, lo suoni e lo fai per un quarto d'ora almeno, perché la ripetizione ha in sé una sorta di tono psichedelico, più la ripeti più la suonata diventa fluida e ipnotica. Quasi tutti i brani avevano quell'intenzione, poi abbiamo deciso di andare verso la forma canzone che comunque ci compete di più.

Regalandovi la possibilità, però, di lasciarla.

Esatto, ci siamo detti: ‘Almeno una canzone teniamola come ci è venuta', forse avremmo fatto bene a farlo tutto così (ride), però quello è un tributo a una parte del nostro amore per una musica che si chiama kraut-rock, sviluppata quasi sempre in quella direzione lì, lunga e ipnotica e fino quasi a diventare ossessiva, però ci piaceva che ci fosse anche una traccia rappresentativa di quello che è stato quel momento creativo.

Con La Tempesta avete uno sguardo privilegiato sulla musica italiana: che situazione vedete?

La Tempesta c'è dal 2000, sono quasi 20 anni che siamo diventati anche produttori, ci sono state varie ondate, la più forte forse c'è stata 3-4 anni fa col cosiddetto It-Pop e quella è stata l'ondata più grossa a cui abbiamo resistito,  forse ne siamo stati anche responsabili. Era uno dei nostri sogni che la scena musicale diventasse più forte ed effettivamente dopo questa ondata si è ingrandito il circuito: si è ingrandito il numero delle band, il mercato è più grande, ci sono più figure professionali, ci sono tanti nuovi artisti che hanno sostituiti i vecchi nelle radio. Siamo contenti, però diciamo che questa ondata ci ha spinto verso la ricerca di qualcosa di alternativo, e invece di provare a cavalcare questa onda abbiamo cercato di prenderla da sotto, cercando una via alternativa. In questo momento stiamo cercando di dare spazio e luce a progetti diversi che non si basano sulla forma canzone, ma sono strumentali: cumbia, elettronica. Penso che il giardino vada mantenuto ricco in ogni sua forma, ci può essere qualcosa di grosso che tutti notano ma è importante che anche il contesto sia ricco per poter esser fronte.

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