La data stampata sulla matrice del 33 giri marchiato EMI, numero di catalogo 3C 064 18188, recita “26 maggio”, e di norma le matrici non mentono. Del resto, proprio in questi giorni del 1976 “Via Paolo Fabbri 43” iniziava a scalare le classifiche nazionali con un’ascesa che si sarebbe arrestata al terzo gradino e, dunque, possiamo dirlo senza timore di smentita: il settimo lavoro di Francesco Guccini ha appena compiuto quarant’anni. Ed è uno splendido quarantenne, per citare Nanni Moretti, con buona pace di quanti reputano il cantautore emiliano – ritiratosi dalle scene musicali a fine 2012, con “L’ultima Thule” – superato, anacronistico, svincolato dalla realtà odierna. La vera Arte rimane però tale a prescindere dalle contingenze temporali e quella del “Burattinaio di parole”, come lui stesso si è definito, appartiene alla categoria e non sarà mai cancellata dalla storia maggiore della canzone italiana; al di là delle critiche più o meno pertinenti che sono state mosse alla sua voce di sicuro particolare o alla relativa staticità delle trame musicali, quella di Guccini è una figura che non ha reali termini di paragone, e i suoi testi – profondi sul piano sostanziale e ricercatissimi su quello formale, ma di una ricercatezza fra il colto e il popolare e qua e là persino ruvida – sono un inesauribile serbatoio di gioie… ebbene, sì: letterarie.
È un album iconico, “Via Paolo Fabbri 43”. A partire dalla copertina, la cui foto “trattata” è stata lunghissimamente utilizzata nei manifesti dei concerti del Maestro, e dal titolo, dichiarazione di appartenenza e, se vogliamo, pure di onestà al confine con l’autolesionismo. L’indirizzo è infatti quello della sua abitazione bolognese, in una bella e tranquilla strada alberata a pochi passi dalla stazione, da allora in avanti luogo di culto laico. «Fu un atto da incosciente», mi disse nel corso di una lunghissima ed emozionante intervista che gli feci nel 2001 proprio lì nel Tempio, «ma non avrei mai creduto che la mia casa sarebbe diventata meta di pellegrinaggi: fino a pochi anni fa la vecchia porta e il muro attorno erano tappezzati di messaggi di ogni genere. Oggi che tutto è pulito, trovo un mucchio di bigliettini nella cassetta delle lettere».
In quei ‘70 di piombo, così pieni non solo di contraddizioni ma anche di fervore, Francesco era per molti – compreso il sottoscritto – una sorta di zio ideale, un saggio insegnante che forniva illuminanti visioni sulle vicende del mondo, stordiva di immagini poetiche e, a volte, costringeva a consultare dizionario ed enciclopedia; e se incuteva soggezione, il problema era di tue insicurezze e non di sua arroganza. Non senza mugugni o strali da parte dei soliti integralisti e con serafica noncuranza dell’oggetto di tante attenzioni, “Via Paolo Fabbri 43” certificò il definitivo approdo alla notorietà di massa dell’allora trentaseienne Guccini. Si trattava, del resto, di un disco superiore ai precedenti: meglio del cupo “Stanze di vita quotidiana” di due anni prima, meglio del divertente “Opera buffa”, meglio – in virtù di arrangiamenti più moderni e scorrevoli, ma qui se ne può discutere – dell’ispiratissimo “Radici”, meglio del bello ma acerbo trittico iniziale del 1967-1970.
"‘Radici' era andato benissimo, ma ‘Via Paolo Fabbri 43' lo surclassò: credo che i meriti siano soprattutto de ‘L’avvelenata', che non volevo neanche inserire ritenendola troppo personale e predisposta a essere equivocata. I brani sono indicativi di com’ero in quel periodo: mi sono messo a nudo, e proprio per paura di esagerare ho voluto attenuare certi concetti aggiungendovi ‘forse’ e ‘ma’…". Senza dubbio l’invettiva feroce e disillusa de “L’avvelenata" ebbe un peso notevole, ma a ben vedere i sei lunghi episodi per neppure trentacinque minuti complessivi di scaletta costituiscono una summa di rara efficacia dell’espressività gucciniana, rafforzata da un approccio autobiografico che esclude solo la “Piccola storia ignobile” d’apertura (una riflessione “romanzata” e struggente sull’aborto). Nel resto, si spazia dall’autoironia della title track (“Volevo infilarci Umberto Eco, ma metricamente non andava bene e quindi è toccato a Roland Barthes”) alla fierezza di “Canzone di notte n.2” (“Un paio di mesi fa mi è stato chiesto perché non scrivevo un pezzo sugli avvenimenti del G8, e io ho risposto che in qualche modo l’avevo già fatto”), dalla malinconia dolce de “Il pensionato” a quella densa di rassegnazione di “Canzone quasi d’amore”. Su “L’avvelenata” mi sono dilungato quasi un anno fa e pertanto non replico, ma ritengo sia il caso di evidenziare che fu il successo di “Via Paolo Fabbri 43” a persuadere il maldisposto Francesco Guccini a esibirsi in posti molto ampi; cruciale, in questa scelta, il sostegno del suo nuovo manager Renzo Fantini, rimastogli accanto fino alla prematura scomparsa nel 2010. Fu insomma in ogni senso un album di maturità e di svolta, “Via Paolo Fabbri 43”, uno di quelli che segnano una demarcazione fra il “prima” e il “dopo” nella carriera di un artista. Quattro decenni esatti più tardi, non si poteva evitare di celebrarlo.