Il 26 novembre è una data importante nella storia del punk e in generale del rock. Precisamente quarant’anni fa, e dunque nel 1976, vide infatti la luce “Anarchy In The U.K.” dei Sex Pistols, uno dei brani più famosi in assoluto del movimento che impartì una violenta sterzata all’approccio alla musica e al costume dell’epoca, creando una linea di demarcazione fra “pre” e “post”. Pubblicato dalla EMI, il 45 giri non fu la prima testimonianza su vinile del punk propriamente detto (la palma spetta a “Blitzkrieg Bop” degli americani Ramones, uscito a febbraio), né il primo del punk britannico (“New Rose” dei Damned era giunto nei negozi il 22 ottobre); fu però, di fatto, il detonatore per ciò che fino ad allora era rimasto più o meno “di culto”, e che solo a New York (dove tutto era cominciato, da alcuni anni) e Londra (fucina di trend destinati a espandersi ovunque) godeva di qualche attenzione da parte dell’industria discografica, dei media e di schiere ristrette ma appassionate di sostenitori. Spinto dalla pessima reputazione – i “ragazzacci”, si sa, piacciono – che la la band di Johnny Rotten, Glen Matlock, Steve Jones e Paul Cook aveva acquisito grazie agli scandali cercati e casuali nei quali lo scaltro manager Malcolm McLaren sapeva sguazzare magnificamente, il singolo entrò nei Top 40 del Regno Unito; certo avrebbe raccolto consensi ben maggiori se l’etichetta, terrorizzata dalle gazzarre e dagli “incidenti” che erano inseparabili compagni del gruppo e che venivano puntualmente amplificati dalla stampa, non avesse deciso di ritirarlo dal commercio il 6 gennaio del 1977, rescindendo il contratto firmato in ottobre e lasciando naturalmente in mano alla congrega Sex Pistols/McLaren le 40,000 sterline versate come anticipo. Da qui al burrascoso scioglimento del gennaio 1978, consumatosi al termine del tour americano, il cammino del quartetto – nel quale Sid Vicious aveva intanto sostituito al basso Glen Matlock, il principale compositore delle musiche – sarebbe stato un continuo, folle ottovolante all’insegna del caos, degli equivoci, dei (piccoli) problemi con la giustizia, della pubblicità negativa che si rivelava più efficace di quella positiva. Roba sufficiente a riempire un librone (ne esistono non a caso parecchi) e perfetta per la trama di un film (da vedere almeno il documentario “The Filth And The Fury” e il romanzato “The Great Rock’n’Roll Swindle”, entrambi diretti da Julien Temple). E la colonna sonora? Facile, quel “Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols” che dell’ensemble è il solo album “autentico”, forte di inni quali “God Save The Queen”, “Pretty Vacant”, “Holidays In The Sun” e, scontato, “Anarchy In The U.K.”, con la sua irresistibile verve pop non del tutto soffocata da sporcizie/ruvidezze hard e da un testo che ha il sapore di una dichiarazione di guerra: dallo sguaiato urlo “Io sono un anticristo, io sono un anarchico” al rantolante “Destroy” che lo suggella.
Per molti, i Sex Pistols non sono stati la miglior band del punk delle origini, e ci sta. Hanno comunque avuto, come si è in precedenza ricordato, un peso fondamentale e un ruolo iconico di primaria importanza, e infatti è merito (o colpa) quasi esclusivamente loro se quanti non sono tanto addentro alle questioni dell’epopea r’n’r ritengono che il punk sia nato a Londra e non negli USA, per la precisione nella Big Apple di Ramones, Richard Hell ed Heartbreakers (e, ancora prima, dei New York Dolls), con diramazioni nell’Ohio degli Electric Eels e dei futuri Dead Boys, nella Detroit rimasta orfana di MC5 e Stooges, nella San Francisco di Crime e Nuns e, sull’altra sponda del Pacifico, nell’Australia di Saints e Radio Birdman. Il fenomeno, che affondava le sue radici in un bizzarro mix di disagio sociale, pulsioni artistiche e voglia di trasgressione, si sviluppò contestualmente in più regioni del pianeta (compresa la Francia, come insegnano i Metal Urbain), espandendosi a macchia d’olio e generando epigoni più o meno ispirati. Situazionismo, provocazioni anche sciocche nei confronti dei benpensanti, nichilismo distruttivo, sballi a buon mercato (con la birra o magari annusando la colla, come suggerito dai Ramones), make up disturbante se non ripugnante e illusione di poter creare un’alternativa nonostante l’apparente assenza di un futuro degno di tal nome: tutto entrava nel quadro, alla pari del sound rabbioso, sudicio e graffiante, dei testi più o meno espliciti nel denunciare assortiti malesseri, di pratiche stravaganti come lanciarsi con violenza gli uni contro gli altri sotto i palchi dei concerti (il “ballo” si chiamava pogo) o sputare in segno di apprezzamento (!) addosso a chi si esibiva (il gobbing). Saper padroneggiare gli strumenti non era indispensabile, perché bastavano pochi accordi o magari uno, e il divismo era, almeno sulla carta, bandito: non c’erano “stelle” e “fan”, ognuno poteva essere se stesso e sbizzarrirsi con i capelli tenuti su grazie al sapone, le vecchie giacchette dei papà, il trucco quanto più possibile appariscente e/o grottesco, le spille da balie e le catene, le t-shirt a brandelli, la lingerie sexy e all’occorrenza i completini sadomaso. Non era un paradiso, perché le droghe, gli eccessi alcolici, il teppismo, l’irresponsabilità e la pura e semplice insoddisfazione esistenziale la facevano da padroni, ma ci si divertiva un mondo. Che motivo c’era di guardare al domani? “Non c’è tempo di arrivare ai ventun anni”, cantava T.V. Smith dei formidabili Adverts, e nel circuito – nei circuiti, di tutte le latitudini – nessuno aveva altre opinioni in merito. E chi aveva già spento le ventuno candeline si limitava ad alzare il numero.
C’è una seconda leggenda, alimentata dal verso “No Elvis, Beatles or the Rolling Stones in 1977” di “1977” dei Clash, altro gruppo-cardine della scena britannica assieme a Sex Pistols, Damned e Buzzcocks: ovvero, che il punk puntasse a distruggere il rock’n’roll. In realtà, i ragazzi del ‘76/’77 volevano riallacciarsi alle sue tradizioni più autentiche, abbattendone le manifestazioni plastificate/imborghesite e restituendogli al contempo furia selvaggia e pericolosità. Un nobile intento che in parte fu conseguito, anche se il “sistema” non si fece sfuggire l’occasione di sfruttarlo e lo trasformò ben presto in cliché da consumo. Non fu però una disfatta, poiché il messaggio di rinnovamento attecchì saldamente, dimostrando l’obsolescenza di certi dogmi e proponendo con successo nuovi modelli: la tecnica divenne meno rilevante delle necessità espressive, la supremazia maschile fu notevolmente indebolita dal talento e dalla personalità di un esercito di musiciste, le multinazionali si trovarono a fronteggiare la neonata onda di etichette e distributori indipendenti e, per non finire in una posizione di svantaggio, furono costrette a rivedere le loro politiche più dittatoriali. Con il senno di quarant’anni dopo si è per forza di cose meno entusiasti e più critici, ma non possono esserci dubbi: un ipotetico universo dove le “sliding doors” avessero bloccato la pubblicazione di “Anarchy In The U.K.” sarebbe di sicuro peggiore di quello in cui oggi viviamo.
Punk ‘76/’77: dieci inni
Adverts – Bored Teenagers
Buzzcocks – Boredom
Clash – 1977
Damned – New Rose
Dead Boys – Sonic Reducer
Heartbreakers – Born To Lose
Richard Hell And The Voidoids – Blank Generation
Ramones – Blitzkrieg Bop
Saints – (I’m) Stranded
Sex Pistols – Anarchy In The U.K.