Per le band italiane di area rock ottenere seri riscontri all’estero è da sempre un problema insormontabile. Lo è soprattutto nei paesi anglofoni, soprattutto cantando in inglese e soprattutto dedicandosi a quegli stili classici dei quali Gran Bretagna e Stati Uniti detengono il copyright. Non importa quanto si è bravi, saremo sempre visti come aspiranti usurpatori che presuntuosamente pretenderebbero di insegnare a chi certe cose le ha inventate, e tutto sommato non è nemmeno così assurdo: diciamo la verità, quanti di noi concederebbero immediata fiducia a un ucraino o un cingalese votato all’interpretazione del repertorio storico partenopeo o siciliano? Ogni regola ha però le sue eccezioni, e quella dei Giuda sembra proprio essere particolarmente eclatante: basti pensare che il loro primo album, “Racey Roller”, è stato pubblicato oltremanica e al di là dell’Atlantico toccando le diecimila copie vendute, o che i cinque romani si sono esibiti di frequente fuori dai nostri confini ottenendo recensioni entusiastiche e conquistando le simpatie di illustri colleghi. E tutto lascia credere che si tratti solo dell’inizio.
Intanto, tra meno di una settimana, l’etichetta londinese Damaged Goods immetterà sul mercato internazionale in vinile e CD il secondo album del gruppo, eloquentemente intitolato “Let’s Do It Again”: dieci tracce per poco più di mezz’ora di musica grintosa, vivace e divertentissima, delle quali “Wild Tiger Woman” – edita in formato 45 giri con l’accompagnamento di un video all’insegna dell’autoironia – ha costituito uno stuzzicante antipasto. Garantito che sabato prossimo, al concerto di presentazione al Black Out di Roma, si vivrà una bolgia transgenerazionale, con tanti giovani e giovanissimi a saltare e ballare assieme ai veterani del punk e magari a qualche più stagionato “reduce” dei primi anni ‘70. Già, perché l’evidentissima influenza principale dei Giuda è il glam rock di quattro decenni fa, peraltro spogliato degli eccessi kitsch e filtrato attraverso radici “working class” che emergono dal look non molto colorato e privo di lustrini oltre che da saldi legami con il mondo del calcio (e il cuore, va da sé, batte forte per l’AS Roma).
Va quindi benissimo citare i T.Rex di Marc Bolan, gli Sweet o gli Slade, senza però dimenticare che i “ragazzi” non giocano con l’ambiguità, non portano i capelli lunghi né indossano scarpe con la zeppa e abiti con le paillettes, optando invece per la sobrietà di jeans, magliette e anfibi. Inevitabile che il dualismo si rifletta nelle canzoni, dove essenzialità, energia e ruvidezza figlie dei trascorsi punk – la band discende dagli straordinari Taxi, che negli anni Zero hanno riscaldato a dovere gli amplificatori dei live club e quelli casalinghi degli appassionati più attenti – coesistono felicemente con ritmiche martellanti, melodie che “acchiappano” al primo ascolto e una tendenza all’inno rimarcata dall’ampio uso di cori. In “Let’s Do It Again” con maggiore maturità rispetto a “Racey Roller”, ma senza che ciò comporti cali di verve o di potenza.
L’ennesima manifestazione della famosa Retromania, insomma? In sostanza sì, e i Giuda non solo se ne fregano ma ci scherzano pure sopra adottando per i loro dischi copertine che sembrano usurate dal tempo. “It’s only r’n’r” e non è il caso di imbastire dietrologie: godiamoceli, alzando il volume finché i vicini non chiederanno pietà.