La Garrincha Dischi è una ormai nemmeno tanto piccola etichetta con sede vicino Bologna. Esiste dal 2008 e finora ha prodotto una quarantina fra album ed EP che spaziano dal rock di vario genere al cantautorato più o meno bizzarro: da 4fioriperzoe a 33 Ore, da Le-Li a ManzOni, da L’Orso a The Walrus passando per I Camillas, Lo Stato Sociale, Matteo Costa (che della label è anche il boss), Magellano e L’officina della camomilla, fino alle raccolte a tema “Il Natale (non) è reale”, “Il calendisco” e “Il cantanovanta”. A caratterizzare il tutto, il clima quasi familiare – sembra proprio che in scuderia non ci sia competizione interna – e una lodevole cura per le vesti grafiche dei CD, spesso davvero deliziose: l’impressione è insomma quella di un progetto artigianale gestito con autentico amore e con un’apparente naïveté che suscita simpatia. Se tutti i dischi brillassero per qualità musicali sarebbe il massimo, ma visto come vanno le cose l’ipotesi è francamente poco realistica. Il dato di fatto, comunque, è che da un paio d’anni la Garrincha è seguita con crescente attenzione dagli addetti ai lavori e dal pubblico dell’indie rock e non solo, tanto da essere divenuta, almeno per alcuni, una specie di marchio DOC.
Nulla da stupirsi, dunque, dei mini-festival organizzati in varie città: Torino e Bologna l’anno scorso e Roma e Firenze in questo mese di luglio, il primo domenica scorsa e il secondo il 23/24. Occasioni di incontro per una platea soprattutto giovanile che nelle proposte dell’etichetta trova evidentemente qualcosa di più di semplici canzoni. Di questo si è avuta prova nella Capitale, con un concerto fissato alla Festa dell’Unità di Parco Schuster che ha seriamente rischiato di non svolgersi a causa di un annullamento per problemi tecnici a quanto pare inesistenti. La tenacia di chi si doveva esibire, l’impegno del promoter Ausgang e la grande disponibiltà dell’Angelo Mai, sostenuti dal tam-tam della Rete che ha fornito le notizie sul cambio di location, hanno trasformato l’iniziale frustrazione in un notevole exploit: dalle 22 all’una e mezza, il locale di Via delle Terme di Caracalla si è così riempito di ragazzi per lo più venti/trentenni che, per l’intera serata, non hanno lesinato in applausi, cori e balli. Un’atmosfera di genuino benessere, contagiosa per tutti i presenti, che ha costituito il valore aggiunto di uno spettacolo tanto efficace in termini di scambio emotivo/comunicativo tra chi era sul palco e chi ci stava davanti da non farne notare i limiti. Limiti innegabili, volendo valutare le performance con un minimo di distacco.
Hanno aperto i Magellano, da Genova, artefici di un hip hop meticcio che vanta un’apprezzabile irruenza ma, nonostante gli sforzi, si perde in un frullato di ammiccamenti synth-pop, flow zoppicante e soluzioni che fanno pensare a una mezza parodia. Meglio dal vivo che in studio, in ogni caso: discorso che vale anche per i milanesi L’officina della camomilla, la cui bella attitudine spigolosa e casinista – chi ricorda i Libertines di Pete Doherty? – è purtroppo in parte vanificata dall’approccio canoro all’insegna di un’irritante indolenza e da un atteggiamento filo-ribelle che ci si augura davvero sia autoironico. Momento globalmente migliore del lotto il set de L’orso, ancora da Milano: cantautorato pop affine a quello del più famoso Dente, con arrangiamenti policromi e una pregevole capacità di tingere talvolta di gioia le loro malinconie. Da solo con la chitarra, il romagnolo Brace ha invece intrattenuto gli spettatori fra un gruppo e l’altro, ottenendo riscontri positivi a dispetto di una formula pop da cameretta esile e risaputa. Ultimi, l’attrazione Lo Stato Sociale, forti di buone trovate sceniche – azzeccata, ad esempio, l’idea del microfono che passa da un membro all’altro – e di un bel dinamismo: il rock elettronica saturo e incalzante dei cinque bolognesi è però banale, così come la loro indole “cazzona” è troppo pronunciata per far credere che i sermoni “politici” scanditi/declamati non siano costruiti a tavolino solo per strappare facili consensi.
Messa così, e rimarcando le carenze di intonazione, estensione, carisma e/o espressività di tutti i cantanti, il successo di “Garrincha Loves Roma” potrebbe stupire. Oltre che nel clima euforico di cui si è detto, senza dimenticare la foga e l’entusiasmo profusi dai musicisti, la chiave potrebbe essere nei testi: benché quasi sempre elementari e grezzi sul piano poetico, sanno inquadrare una generazione confusa, abbondantemente matura per l’anagrafe ma nella pratica condannata a rimanere chissà per quanto adolescente. Al di là di ogni giudizio di merito, alla Garrincha hanno saputo creare qualcosa definibile come “senso di appartenenza”, un risultato che non molti riescono a conseguire. Se solo l’avessero fatto con titoli di incontestabile spessore, lo champagne scorrerebbe a fiumi.