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Epoque tra Cliché e afrobeats: “Voglio essere la prima ad affermare questa onda afro”

Epoque è una delle prime artiste a voler cavalcare l’onda afrobeats, tra i generi più ascoltati in Francia, qui in Italia. Con i testi che raccontano la sua vita in italiano e in francese, Epoque ha raggiunto il successo con i primi tre brani: “Petite”, “Boss” e “Cliché”. Nell’intervista racconta anche come ha affrontato episodi razzisti in Italia e all’estero, mostrando le differenze tra queste realtà.
A cura di Vincenzo Nasto
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"Petite", "Boss" e "Cliché" sono i primi tre singoli di Epoque, nome d'arte della cantante torinese Janine Tshela Nzua, che naviga in un universo musicale tutto suo, quell'afrobeat che raccoglie le influenze jazz, funky, mischiandole con il ritmo dance tribale. Un gioco di suoni e immagini che Epoque riesce a trasferire nella sua musica, lasciando talvolta la sua zona di comfort nel racconto del suo passato, tra la periferia torinese e quella di Bruxelles, Parigi e la parentesi artistica di Siviglia. Un viaggio continuo, con la musica in sottofondo, anche con artisti lontani dal suo panorama musicale, come i Cranberries e il loro album d'esordio "No need to argue". Il viaggio è stata anche la possibilità di farsi influenzare dalle altre culture e dargli la sicurezza di gettarsi in un progetto afrobeat, genere più ascoltato in Francia, ma che in Italia ha un pubblico tutto da costruire. Le sfide non dispiacciono a Epoque, che nel frattempo ha confrontato il tema del razzismo in tutti i paesi in cui è vissuta, rivelando: "Subìto, l’ho subìto ovunque io sia andata. Rispetto all’Italia, all’estero hanno velocizzato molto questo processo di integrazione, che in Italia è molto lento". L'intervista a Epoque qui.

Nelle scorse settimane è stato pubblicato il tuo terzo singolo: dopo "Petite" e "Boss" è arrivato "Cliché". Un brano che racconta, come in passato, le tue radici e la tua reazione al mondo circostante, che sembra averti bollato. Comunque un brano molto personale.

Il brano è nato in un periodo in cui scrivevo molto delle mie esperienze personali, infatti la musica, già dai primi brani, era diventata la mia terapia in cui riuscivo a esprimere ciò che mi andava di dire. Cercavo di rispondere magari a esperienze di bullismo nei miei confronti. Cliché è una canzone figlia di quel pregiudizio ed è un po’ la risposta a questa persona che non ho mai incontrato, perché giustamente non si è mai fatta vedere. I’m watching you.

Torino, poi Parigi, Bruxelles, Siviglia e infine il ritorno a Torino. Quanto è stato importante il viaggio nella costruzione della tua sensibilità artistica?

Per me è stato importantissimo viaggiare perché mi ha insegnato a conoscere la gente più a fondo. Culture diverse, tutto ciò che ho vissuto e ho imparato. La mia musica nasce dai miei spostamenti e ciò che ne ho tratto.

Hai vissuto la tua infanzia a Torino, in un quartiere come quello di Barriera di Milano, una periferia a cielo aperto che ha influenzato anche i tuoi racconti. Quanto è stato importante crescere nella periferia e quanto ha influenzato la tua dimensione musicale?

È stato personalmente molto importante per la mia crescita, mi ha aiutato a crescere molto più in fretta e mi ha aiutato a fare delle scelte che poi mi hanno portato fin qui. Scelte importanti, così difficili che non pensi di farle a quell’età, perché ti senti molto agevolato. Invece a me le agevolazioni son mancate un bel po’. In Barriera di Milano, cioè in periferia, ho vissuto tutta la mia adolescenza. Poi sono andata via molto presto, però comunque rimane la famiglia, mi casa.

Qual è il tuo primo ricordo musicale?

Sin da piccola ascoltavo molta musica, mi ricordo che il primo album dei Cranberries “No need to argue” era un progetto molto conscious, molto triste. Diciamo che da piccolo quando ascolti musica, non ascolti i testi, ascolti musica che ti diverte. Invece mi ricordo che sono andata a tradurre tutte le canzoni, a capire tutti i testi. Mi ha dato un sacco di emozioni e lì ho capito che la musica ti poteva dare tantissimo. Ma soprattutto è soggettiva, perché ognuno di noi capisce un singolo a modo suo, e li ho capito davvero la magia della musica.

C'è stato un momento preciso della tua vita, in cui hai pensato di voler fare musica non solo per passione?

“Voglio fare musica nella mia vita”: era un sogno irraggiungibile sin da piccola. Quindi ho sempre pensato: “Wow. Fare la cantante sarebbe veramente figo”. La decisione di diventare cantante c’è stata in realtà quando ho iniziato questo progetto, esattamente in quel momento. Ho incontrato il mio produttore Di Gek, che mi ha spronata e mi ha detto “Guarda tu potresti farlo” e io “Sul serio?”. Abbiamo iniziato questo percorso fino ad arrivare qui.

Hai vissuto in paesi europei molto diversi uni dagli altri, anche nel concetto di integrazione. Quale credi sia la differenza tra l'Italia e gli altri paesi europei nel razzismo sistemico e hai subito episodi in passato?

Subito, l’ho subito ovunque io sia andata. Rispetto all’Italia, all’estero hanno velocizzato molto questo processo di integrazione, che in Italia è molto lento. Ci troviamo in un periodo in cui stanno cambiando molte cose, ma non solo a livello razziale. A livello mentale la gente si sta aprendo molto di più, grazie sicuramente ai social, in cui le notizie girano in maniera molto veloce. Per esempio, il Black Lives Matter è arrivato subito qui, appena è successo, una cosa che qualche anno fa non sarebbe successa. Alla base sicuramente ci deve essere il rispetto per la cultura altrui, per la persona. Il fatto di essere a conoscenza delle cose subito e evitare grandissimi fraintendimenti.

In Francia, con artisti come MHD, l'afrobeat, e in particolare l'afrotrap, è uno dei generi più ascoltati. Quanto credi sia difficile cercare di introdurre il pubblico italiano alla musica afro e come ti senti a essere una delle prime artiste a farlo?

Il fatto di aver iniziato questo progetto, in Italia in cui il genere non è tanto affermato, lo si conosce perché arriva da fuori, è stata una scelta. In Francia comunque è un genere che ascoltano tutti, ovunque, e il fatto che non sia affermato qui, è stato uno dei motivi per iniziarlo. Non c’è abbastanza musica afro qui in Italia, quindi ho iniziato questo progetto con la voglia di affermare questa wave.

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