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Enzo Jannacci, chi è stato e perché va ricordato

Tracciare in poche parole il percorso di un gigante della storia dello spettacolo italiano porta le sue difficoltà, ma è necessario tentare di capire in che modo Jannacci abbia contribuito a creare un’Italia migliore.
A cura di Andrea Parrella
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A dieci anni di distanza da Giorgio Gaber, se ne va anche Enzo Jannacci, uno degli artisti più poliedrici del panorama musicale italiano degli ultimi decenni. Erano amici, prima senza essersi scelti, dunque d'ufficio, perché compagni di scuola. Poi per preferenza. Jannacci è morto a Milano a 77 anni, era nato il 3 giugno del 1935 nella stessa città. Si è reso protagonista di un periodo storico nel quale Milano è riuscita a dare il meglio di sé, o se si vuole il meno peggio. Pur avendo seguito studi piuttosto seri di pianoforte, è incline al jazz e nel corso degli anni modifica il suo stile asservendosi proprio all'improvvisazione, che sarà, insieme all'ironia, cifra stilistica di tutta la sua produzione. Dal punto di vista della formazione, inoltre, si laureò in chirurgia negli Stati Uniti.

Impossibile comprendere chi fosse Jannacci se questo artista viene preso in separata sede rispetto alle caratteristiche teatrali che hanno colorato la sua produzione musicale e quella sua capacità di condire con ironia e il surrealismo tutto ciò sfiorasse. Nel corso degli anni il pubblico generalista ha imparato ad assimilarne l'opera tramite alcuni riferimenti che restano nell'immaginario collettivo, su tutti l'irriverente Vengo Anch'io No Tu No oppure Quelli che.. lampo di genio nella quale, in sintetici accenni aforistici Jannacci è riucito a raccontare i vizi e le virtù di un popolo intero. Una canzone dotata di una caratteristica talmente singolare da renderla unica, quella di modificarsi col tempo, essere al passo col tempo, i tempi degli italiani.

E certo non si può credere che non fosse l'analisi riflessiva, anche se indiretta e volutamente distaccata, una delle cifre fondamentali di quanto è riuscito a regalare al suo pubblico. In Giovanni telegrafista narra la struggente storia di un cuore urgente alla ricerca dell'amore lontano, chissà dove, di cui è alla disperata ricerca tramite l'unico mezzo a sua disposizione: quel marchingegno su cui batte meccanicamente le dita. Autore dalla grande capacità di sintesi ma anche dotato di tratti di simbolismo acuto. E' cresciuto con Gaber, Dario Fo, poi Celentano, Cochi e Renato ma per la generazione di Paolo Rossi è un maestro, in un certo senso è stato proprio lui a indicare la strada e i codici della nuova comicita'. E a proposito dei codici, anche lui ha dovuto lottare contro gli standard della Rai in bianco e nero, dove venne giudicato poco adatto: il suo umorismo era troppo avanti rispetto a quegli anni.

Valutare lo spessore di Jannacci solo tramite quanto è riuscito a produrre in termini musicali potrebbe essere riduttivo. Per chi sia di origini meneghine è di certo divenuto un personaggio che, nel suo piccolo, ha provato a rendere la nostra nazione migliore. I suoi ritratti disimpegnati di una solitudine immarcescibile narrano di un personaggio che forse non avrebbe esattamente desiderato un tappeto di elogi al sopraggiungere della propria morte. Tuttavia riesce impossibile esimersi, in una notte dai tratti nostalgici, dal cedere ad un sorriso amaro, ma sincero, nel sentire frasi come:

Quelli che hanno il padre che fa il prete… Quelli che credono che Gesù bambino sia Babbo Natale da giovane… Quelli che votano scheda bianca per non sporcare… Quelli che vorrebbero arruolarsi nelle SS, ma non c'hanno il fisico e non possono darci la divisa. E allora fanno le scuole di sopravvivenza: e muoiono tutti. Purtroppo quasi tutti!

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