46 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

Emidio Clementi: “Usiamo l’America di Shepard per mostrare il nostro sguardo sulla provincia”

Emidio Clementi e Corrado Nuccini hanno pubblicato Motel Chronicles, un album che parte dal libro di Sam Shepard per farsi esperienza musicale.
A cura di Francesco Raiola
46 CONDIVISIONI
Corrado Nuccini ed Emidio Clementi (foto di Laura Bessega)
Corrado Nuccini ed Emidio Clementi (foto di Laura Bessega)

A volte mi chiedo se perdersi dentro un album che porta la firma di Emidio Clementi sia dovuto innanzitutto a un pregiudizio positivo che nutro – e in generale un pezzo della mia generazione nutre – per il cantautore dei Massimo Volume (e di Sorge e El Muniria). Ci penso molto, mentre ascolto la sua voce ipnotica. E poi, ogni volta, mi dico di no. È successo anche ascoltando "Motel Chronicles", l'album che oltre alla sua, porta la firma di un altro pilastro della musica italiana, ovvero Corrado Nuccini, fondatore dei Giardini di Mirò. Il titolo di quest'ultimo capitolo di una trilogia cominciata con "Notturno americano" (ispirato a "Il primo dio" di Emanuel Carnevali) e proseguita con "Quattro quartetti" di T. S. Eliot, si deve all'omonimo libro dello scrittore e sceneggiatore americano Sam Shepard, da cui provengono le parole ritradotte per l'occasione proprio dal cantautore (che è anche docente di Scrittura Creativa all'Accademia di Belle Arti di Bologna e scrittore a sua volta). Spezzoni di provincia americana che deve tantissimo anche al tappeto sonoro di Nuccini che spazia tra gli States, il Messico, Bristol e l'Italia e al lavoro di un gruppo di musicisti All Star. Abbiamo chiesto a Clementi di parlarci di questo lavoro, del suo lavoro con Nuccini, della diffidenza del mondo letterario

Motel Chronicles chiude la vostra personalissima Trilogia dopo Notturno Americano Emanuel Carnevali e i Quattro Quartetti di T.S.Eliot?

L'idea della trilogia ci è venuta in mente quando abbiamo finito il disco, non siamo partiti con l'idea di chiudere un cerchio. Anche perché ho finito gli autori che riesco a portare in scena: io e Corrado eravamo partiti con l'idea di fare qualcosa insieme, abbiamo sondato quali potevano essere i testi e gli autori possibili, uno era Roberto Roversi, però per quanto mi piacciano i testi scritti per Lucio Dalla e le sue poesie non lo sento proprio mio, invece con Shepard sono rimasto nella mia comfort zone, come mi ha detto Emiliano, il mio discografico, però, forse, sono gli unici che riesco a interpretare.

Ultimamente, con "Il nuotatore" c'è stato anche Cheever nel tuo immaginario, di cui gli Usa sono sempre stati parte fondamentale, penso a Manhattan di notte a Coney Island…

Sì, è vero, in più visto che Motel Chronicles è un libro spurio, fatto di frammenti, poesie etc, aiutava ad avvicinarci a una forma canzone, anche per lasciare più spazio alla musica, piuttosto che limitarsi all'idea di musicare un racconto, che sarebbe stata un'operazione più letteraria.

C'era anche un legame la voglia di raccontare la periferia americana o è venuta dopo?

A un certo punti l'immaginario di Shepard l'ho pensato più come un intralcio, nel senso che il suo è un immaginario codificato di una certa America, quella dei motel, delle strade di provincia, però a leggerlo bene Shepard dà anche più spunti. Non potevamo neanche rinunciarci a quella visione, perché lui è anche quello ma anche graficamente, nell'idea di copertina, volevamo dargli una rinfrescata. Alla fine è America, però ci piaceva che fosse una foto ambigua, che potesse rappresentare la provincia italiana.

Provincia italiana che ha sempre avuto un ruolo importante nella musica e nella Letteratura e in questi ultimi anni sembra che abbiamo quasi bisogno di uscire dalle città…

Secondo me la provincia italiana ha dato molto, la cultura italiana è una cultura soprattutto di provincia: se penso agli scrittori che ho amato come Goffredo Parise o Claudio Piersanti sono di provincia, che magari si sono trasferiti in città ma hanno sempre raccontato quel pezzo di Paese. La Francia, per dire, mi sembra molto più legata a Parigi e forse quello che abbiamo cercato noi con Shepard, e quello che io ho cercato in tutta la mia carriera, è stata l'operazione che ha fatto Jean-Pierre Melville che, da appassionato di un certo cinema americano, noir, di una certa America, è andato a cercarla in Francia, per cui c'è un paesaggio che risulta molto verosimile, perché è Francia, ma guardata con uno sguardo che fosse quello con cui lui ha osservato l'America. Io ho fatto lo stesso, mi sono imbevuto di autori come Cheever e Carver, però quello sguardo sulla realtà l'ho adattato alla mia, personale, realtà di provincia. Anche Shepard, che ci risulta molto esotico, col suo cappello da cowboy, le auto anni 50, descrive quello che ha intorno, quindi la sua Casalecchio di Reno, la sua Caserta.

Pensando a quello che dici mi vengono in mente le foto di Ghirri…

Esatto, proprio quello. Alcuni della nostra generazione a volte dicono "No, ancora Ghirri?", però è vero che lui riesce a rendere esotico quello che è il suo ambiente, un'operazione non facile che però funziona.

L'immaginario musicale anche è ampio, ma si apre, oltre all'America e all'Italia, anche all'Inghilterra e non solo, per dire. Con Corrado come ci avete lavorato?

Corrado è così bravo che basta dargli un input per fargli comprendere perfettamente quello che avevo in mente, però anche musicalmente l'idea era quella di creare il ponte. Dentro, infatti, c'è il Messico, aleggiano il country e il folk, col rischio, però, che diventasse una cartolina abbiamo cercato un ponte che unisse l'America con la musica da camera, le sezioni d'archi, Bristol, qualcosa che lo rendesse più vicino a noi. In quello è stato molto bravo. Il rischio che abbiamo avvertito entrambi, a un certo punto, essendoci molti ospiti, era quello che diventasse un disco troppo ricco e che la parola perdesse la sua centralità, ma spero che non sia stato così, sicuramente è il più musicale dei tre.

Con il tuo modo di cantare e recitare, però, hai sempre dato il giusto spazio a quella parola, no?

Io sono sempre stato attento alla parola, ma il mio sogno è quello che un disco a cui ho partecipato, uno lo mettesse sul piatto potendo dire: "Mi piace, ma non mi sono ancora concentrato sui testi". Che poi i testi diano una profondità, certo, però successiva al disco, vorrei che quello che colpisse fosse la musica, altrimenti diventa un disco più faticoso. Poi, vabbè, i dischi che ho fatto io sono faticosi, ma mi piacerebbe togliergli quella fatica a volte.

Il primo approccio, però, è sempre quello di come la tua voce si amalgami con la musica, vale adesso, nei Massimo Volume e negli altri progetti…

È l'operazione più lunga che facciamo, anche nei Massimo Volume, quella di sciogliere la parola non cantata all'interno della musica. In quel caso conta anche la scelta delle parole perché hai la voce che ti arriva in faccia e bisogne essere bravi a dosarla, altrimenti è facile che diventi fastidiosa, ingombrante. Bisogna cercare di restituirle una certa distanza prospettica.

E Nuccini è uno che sa come creare certe atmosfere musicali, oltre al fatto che ormai siete rodati, no?

A me ha stupito il lavoro che ha fatto sulle sezioni d'archi, riuscire a scrivere cose semplici, ma così efficaci, mi ha stupito.

Invece l'idea di ritradurre questi passaggi invece di usare la traduzione già edita, come nasce?

Io sono affezionato alla traduzione di Feltrinelli – adesso il libro è stato ristampato da Il Saggiatore – che è di circa 40 anni fa, quando funzionava e andava di moda tradurre il passato inglese col passato remoto, che è un tempo che adesso si tende a sostituire col trapassato e il passato prossimo e quando se ne ha la possibilità anche col presente. E anche quando nella voce parlata il passato remoto lo affossa un po', così ho cercato di renderlo più mio.

E renderlo più vicino, forse?

Sì, è quello. È stata una fatica anche se sono solo 10 episodi e i pezzi sono corti, però ogni frase ti costringe a una scelta, ogni frase è un tradimento. Shepard, in inglese, per dar ritmo alla frase, a un sostantivo attacca tre o quattro aggettivi, ma in italiano diventa una mostruosità e così devi fare delle scelte. Scegli "stretto" o bianco", legato a un sostantivo? E così, comunque, lo tradisci. Ci sono cose che avrei voluto riscrivere meglio ma mediamente sono soddisfatto, mi sembra che sia una lingua che suona bene.

Che accoglienza c'è per un progetto del genere?

C'è un pubblico che ci segue da tempo, è attento e si fida della proposta. Ce n'è un altro più letterario, diverso dai club, che mediamente ci ha sempre ignorato e continua a ignorarci, e mi chiedo il perché. Anche l'operazione su Eliot poteva farci arrivare a un pubblico diverso, però non è stato così. Ma così come per Carnevali avevamo contattato Adelphi per dire che lo portavamo in giro con quel progetto, questa volta abbiamo scritto al Saggiatore, ma c'è sempre stato un totale disinteresse. Ma te lo dico così, senza recriminazione.

Come mai secondo te?

Non so, però io sono sempre stato considerato un intruso nel mondo letterario, forse è quello. Perché in Italia può esserci un dentista che scrive libri, ma se sei un musicista sembra quasi che stai usurpando uno spazio che non è il tuo.

Se volessi aggiungere un nuovo capitolo alla trilogia chi sceglieresti?

Adesso ho voglia di riportare in scena le mie parole, ho voglia di scrivere dei testi.

46 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views