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Don Joe, tra malattia, fine della trap e i Dogo: “Mai scocciato di fare album con loro”

L’analisi del momento storico del rap italiano, una sua fotografia, ci arriva direttamente da “Milano soprano”, il nuovo disco di Don Joe pubblicato la scorsa settimana. Un progetto che sembra mettere la parola fine al periodo della trap in Italia, unendo vecchi e nuovi rappresentanti della scena milanese. Poi i Dogo, il reggaeton e la malattia, che fa da filo conduttore nel disco attraverso gli skit.
A cura di Vincenzo Nasto
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Siamo arrivati alla fine di un momentum del hip hop italiano, quello della trap, dopo un periodo durato cinque lunghi anni. A sancirlo è uno dei padri fondatori del rap italiano, il producer milanese Don Joe, all'anagrafe Luigi Florio, uscito da pochi giorni con "Milano Soprano", uno dei progetti più attesi degli ultimi mesi. Perché? A sei anni da "Ora o mai più", Don Joe rimane uno dei producer più attivi della scena, in grado di creare un legame con il passato, senza perdere di vista come l'industria musicale evolve. "Musica senza tempo" con riferimenti a Nas e alla sua "Represent", ma anche a "Cose Preziose" di Kaos, senza però far mancare l'episodio drill, la new wave proveniente dagli Uk che sta divorando le classifiche italiane. Non manca il passato con la Dogo Gang, ma anche il presente con i vari Shiva, Massimo Pericolo, Ernia, e il futuro nelle mani di Shiva, Sacky e la scoperta Nerissima Serpe. Poi la malattia, il diabete, scoperto in un tour con i Dogo che diventa anche il filo conduttore che viene rappresentato negli skit, abitudine americana a cui Don Joe non fa che ammiccare. Infine, i Dogo: che di reunion non si parli, ma almeno del passato sì. Tra "Penna Capitale" e "Noi siamo il club", Don Joe ripercorre alcuni dei momenti break del rap italiano.

Volevo partire dallo skit di "Condanna": "Il tocco di Mida non l’ho perso". C’era qualcuno che dubitava? Potrebbe essere stato questo uno dei motivi che ti ha convinto a ritornare con un progetto ufficiale?

Volevo mettermi a nudo su alcune questioni personali, è stata una delle prerogative principali degli skit di quest'album, piuttosto che raccontare Milano. Lo skit deve fare da filo conduttore, dove non si presentano i personaggi del disco, ma l'intera storia, il concept del progetto. Son partito da questo. La condanna della malattia (il diabete) è stata anche una forza, una notizia che mi è arrivata mentre ero in tour con i Club Dogo, e per cui non c'è cura, ma solo terapie.

A sei anni da "Ora o mai più", il tuo ultimo album ufficiale, sono cambiate diverse cose nell'industria discografica italiana, soprattutto rispetto all'ampliamento dei confini del rap italiano. Come hai vissuto da produttore questo momento, e come ha influenzato "Milano Soprano"?

Da "Ora o mai più" sono successe molte cose, ho continuato a lavorare come produttore e sono uscite un sacco di cose belle, anche con riferimenti chiari alla corrente trap dell'hip hop italiano. Io sono sempre a cavallo tra classico e moderno, anche nei primi dischi che ho prodotto. Cercavo di tenere un piede nella tradizione, sempre però cercando di costruire il mio suono. Una delle mie abitudini musicali è quella di andare avanti e indietro e quest'album me l'ha permesso. Anche perché ha segnato per me una rinascita e l'ho raccontata attraverso Milano, la terra che mi ha visto nascere.

"Obe", "Djungle" e adesso "Milano soprano", in attesa di Night Skinny. Un grande anno per i progetti solisti dei produttori, un concept abbastanza raro in Italia, diversamente che in America. Nel 2011 con "Thori e Rocce", tu e Shablo avete tentato di allargare a un pubblico più ampio l'ascolto del rap italiano, con l'utilizzo di artisti come Francesco Sarcina. Cosa ha significato per te quel progetto e quanto sarebbe possibile ricreare un disco del genere, di carattere nazionale, anche per la provenienza degli ospiti?

Sicuramente la commistione di generi è ampiamente sdoganata, basta vedere adesso cosa popola il mercato urban musicale, una discendenza dei canoni hip hop. Quel progetto era molto difficile da fare per il numero di artisti da mettere insieme, anche se rappresentava un manifesto di ciò che era l'hip hop nel 2011. Poi c'era Sarcina nel ritornello di "Le leggende non muoiono mai", c'erano personaggi pop che stavano per esplodere e altri che sono esplosi proprio grazie al progetto stesso. Erano nostri amici cari alla fine, non c'era una scelta mirata di arrivare a un pubblico pop. Oggi le strade sono aperte, basta pensare che nel mio album ho messo assieme J-Ax, Coma_Cose e Myss Keta che è una cosa da matti.

Quindi siamo pronti al prossimo passo?

Dobbiamo pensare a questo oggi: il rap, per la sua accezione più classica, ha bisogno di contaminazioni per restare e durare nel tempo. La trap ha funzionato per pochi anni, adesso è un po' deboluccia: potrebbero arrivare artisti che scriveranno qualcosa di più interessante. Anche perché la scena trap italiana ha una certa rilevanza anche negli altri paesi europei e non solo.

Contaminare sembra esser la parola chiave nel tuo modus operandi, e lo si è visto anche in questo progetto. Quanto è stato difficile riuscire a creare una connessione musicale tra passato e presente, e quale produzione ti è piaciuta maggiormente?

L'episodio drill, che non è il punto centrale della mia produzione, mi è piaciuto molto. Anche quello trap, ma sempre prodotti a modo mio, con un tocco personale. Nella trap si usano synth e arpeggi particolari, mentre a me piace campionare determinate cose, quindi ho cercato di fare una cosa abbastanza personale. Arrivando da una generazione precedente all'esplosione della trap italiana, ho dovuto ricalibrare anche il mio suono, soprattutto riferendomi a chi ascolta in questo momento la musica in Italia. Ovviamente ho sperimentato e osato, non posso fermarmi a quello standard, non mi posso uniformare.

Appare chiaro il riferimento a Nas e alla sua "Represent", come a "Cose Preziose" di Kaos nelle produzioni del tuo disco. Che legame esiste tra questo progetto e questi autori?

Diventa un filo conduttore che unisce tutta la mia musica. Venendo da quella generazione lì, ho voluto fare quel tipo di tributo. Ma c'è anche l'episodio del campionamento di Ultranatè, che viene dall'house, che comunque ha rappresentato un momento importante della mia vita artistica.

"Dogo gang bang" e "Guerriero": due facce della stessa medaglia, due estremità che rappresentano l'hip hop milanese, la zarria e il conscious. Quanto è stato difficile unire, ancora una volta, anche musicalmente, questi due mondi opposti?

Spiegare questa cosa è una impresa titanica. In un disco, come quelli del passato dei Dogo, c'è sempre stata una distanza netta, che poi fa parte anche di noi come singole persone. Io sono un produttore tamarro, ma riesco a produrre anche suoni che riescono a stimolare la tua emotività, e anche in questo disco lo dimostro. Non è una novità, non è una sorpresa, bisogna semplicemente essere in grado di coglierla. A me è sempre piaciuto più il lato B, la parte intima e drammatica della musica. Anche con i Dogo producevo roba molto profonda, poi c'erano i singoli frivoli tipo "Dance dance dance", "Pes" e compagnia bella. In molti non riuscivano a comprendere i due lati della medaglia e in molti si ricordano di te solo perché fai il cazzaro in spiaggia, poi invece c'è tutta quella cosa lì. Come nel disco, da una parte c'è la scrittura conscious e intima di Marracash e Venerus, dall'altra la zarria di Dogo gang band.

Perché credi ci sia questo tipo di discriminazione nella descrizione del lavoro del produttore in Italia?

C'è questa cultura in Italia per cui se fai un successo, tipo reggaeton come "Lento" con Boro Boro, in quel momento diventi il produttore di musica reggaeton. Per me rimane una cosa "one shot", non è il mio e ho fatto tanto altro in questa lunga carriera. Ma poi tutto ciò che deriva da quel tipo di racconto è che io divento un produttore reggaeton, e non sai quanti ragazzi mi contattano nei DM perché volevano una base così da me. Prima di tutto, io già da un po' di tempo non sono più un beatmaker, ma un producer e questo ti porta a vedere tutta la questione manageriale e di mercato della musica. Quindi quando produco un beat, devo sapere che direzione ha, per chi lo devo fare. Certamente se un beat reggaeton me lo chiede Maluma, sono disponibile a farlo, ma non artisti sconosciuti. Se avessi accettato le offerte di tutti, in questo momento avrei una villa enorme con piscina, ma non è il mio obiettivo.

Shiva, Sacky, Silent Bob, Il ghost, la 167 gang, Nerissima Serpe. Tra i più e meno noti, c'è una grande rappresentanza di nuove leve della scuola milanese, un distacco anche linguistico che è tangibile, ma non solo con il passato come con Guè, Jake e Marra, ma anche con gli artisti del 2016. Come sei arrivato a questi nomi?

Proprio per il discorso di andare avanti e indietro, ho scelto dei ragazzi che mi hanno colpito sin dal primo momento. Oltre Shiva che è ormai uno dei giovani più forti della scena, ho guardato a Zona 7 con Sacky, ma non solo. C'è Il ghost, la 167 gang, ma sopratutto Nerissima Serpe. Avendo ormai contatti con quasi tutti i discografici italiani, ci passiamo le tracce in anteprima per capire anche un po' lo stato delle cose. Lui mi ha impressionato davvero, perché ha una scrittura diversa, riesce a riempire la traccia con nuove immagini. Anche per questo ho deciso di metterlo assieme a Massimo Pericolo.

Parlare di reunion sarebbe inutile e controproducente, dopo che tutti e tre avete espresso la vostra opinione su ciò che è stato ed è il gruppo. Ma una domanda sui Dogo è impossibile non farla: qual è stato il progetto a cui sei più affezionato dei Club Dogo, quello in cui ti sei divertito maggiormente?

Guarda, credo che la produzione degli album dei Dogo siano state tutte particolari, sia per il posto in cui andavamo a registrare, sia per la connessione che avevamo. Io non mi sono mai scocciato di fare album con i Dogo. Devo dirti che Penna Capitale è stato uno dei più entusiasmanti, perché c'è stato un come un break, come se avessimo capito che la cosa stava esplodendo e stava cambiando le nostre vite. Ma anche "Noi siamo il club", lì il successo è diventato clamoroso, aprendoci a un pubblico nazionale.

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