Federico Fiumani non sopporta granché le regole. Nessuno stupore, dunque, che abbia deciso di celebrare il trentennale del primo album dei Diaframma non a dicembre dell’anno prossimo, come calendario avrebbe imposto, bensì ora. Da qualche giorno, infatti, dell’epocale “Siberia” è disponibile una speciale ristampa limitata a 999 copie numerate che comprende l’album in vinile e in CD, quest’ultimo arricchito di undici brani incisi dal vivo a Modena il 4 gennaio del 1985. Racchiuso in una bella copertina apribile e corredato di un libretto formato LP con articoli e recensioni del tempo, il disco è distribuito dalla Self ed è acquistabile al prezzo di 22 euro nei negozi che ancora resistono, oppure – con un risparmio di circa il 30% – alle presentazioni ufficiali organizzate in alcune città.
La prima si è svolta sabato scorso al Brancaleone di Roma: una mezz’ora di ricordi e riflessioni più o meno a ruota libera, seguita dall’esecuzione integrale dell’intera scaletta in chiave essenziale (chitarra elettrica e voce), più inevitabile bis con un gruzzolo di episodi pescati nell’ampio repertorio successivo. Già, perché Fiumani – cinquantatré anni compiuti a maggio – non è uno stanco reduce che vivacchia sfruttando un antico ed effimero exploit, ma un musicista in perenne movimento oltre che sui generis: nella Firenze degli anni Ottanta, i Diaframma furono i primi a coniugare post-punk filobritannico e testi in italiano, inaugurando una tendenza alla quale molti si sarebbero accodati (ad esempio, gli amici Litfiba); dalla fine di quel decennio, appropriatosi anche del microfono e con la band divenuta una sua estensione, Fiumani ha elaborato e perfezionato una brillante formula fra rock e canzone d’autore, ispirando idealmente e stilisticamente decine di gruppi e solisti; dal 1998 si è quindi votato all’autoproduzione, realizzando nuovi lavori (ne è atteso un altro per novembre, “Preso nel vortice”) e allestendo recuperi di materiali d’archivio. La sua discografia è ormai sterminata: i veri album di studio sono ben sedici, le antologie e i live sono grossomodo altrettanti e nell’organico hanno transitato circa venticinque persone. Numeri notevoli che, assieme a quelli dei concerti, sono senza dubbio da record per il nostro panorama indipendente/alternativo.
A ventinove anni dall’uscita originaria per la IRA, “Siberia” è reputato uno degli album-cardine del rock nazionale: settimo nella classifica di importanza pubblicata dal mensile “Rolling Stone” nel 2012, e fra i primi venticinque in quella analoga del trimestrale “Mucchio Extra” (2003), è la fotografia in bianco/nero – ma punteggiata di lampi di luce (al neon) – di una generazione turbata dalla malinconia esistenziale ma rafforzata nella sua cupezza dalle sintonie con certe letture maudit, con certo cinema di culto, con certi ascolti carichi di tensione e inquietudine. I Diaframma c’erano arrivati dopo un lungo apprendistato che gli aveva dato la fama di “Joy Division italiani”: un 45 giri, un EP, alcuni pezzi sparsi e un bel po’ di presenze sui palchi, con Fiumani a comporre sia parole che musiche e suonare la chitarra, i fratelli Leandro e Gianni Cicchi rispettivamente a basso e batteria e Nicola Vannini alla voce. Nel 1983, il problematico rapporto fra il leader e il frontman si risolveva con l’allontanamento di quest’ultimo, e il conseguente ingresso in line-up di Miro Sassolini veniva testimoniato da tre album in cinque anni, tutti riuscitissimi ma con l’esordio a ergersi, per dirla con il Sommo Poeta, “dalla cintola in su”.
Costituito da otto tracce per mezz’ora di durata totale, “Siberia” vive di sonorità aspre ma a loro modo eleganti, di ritmiche per lo più marziali, di un mood fosco ma non funereo, di liriche ombrose cantate con toni solenni e stentorei. La regione asiatica eletta a metafora del freddo interiore di tanti ragazzi vestiti di nero e grigio, come suggerito anche – benché con spunti surreali volti ad attenuare il malessere – dal video della title track? Esattamente. “In sintesi”, ha dichiarato Fiumani, “il disco interpretava lo spaesamento della giovinezza, che non era solo una fase spensierata della vita ma significava pure problemi, nevrosi, sensi di colpa, sentimenti kafkiani nei quali ero immerso. Per me è stato un periodo nient’affatto roseo e ‘Siberia’ è una sorta di documentario di come mi sentivo in quegli anni. L’averlo saputo comunicare ai miei coetanei di allora, e il fatto che più generazioni di ventenni si siano identificati e si identifichino in quelle canzoni è la prova di aver colto nel segno, di aver saputo rendermi interprete di sentimenti universali”. Un romanzo di formazione in musica, insomma. Che oggi, tre decenni (meno un anno) dopo, non ha perso nulla del suo straordinario fascino.