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Ciro Buccolieri racconta Thaurus e l’esplosione mainstream del rap: “Nati per colmare un vuoto”

Ciro Buccolieri è una delle figure principali del rap game italiano. Founder di Thaurus, ha raccontato tutti i lati nascosti della discografia italiana.
A cura di Vincenzo Nasto
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Ciro Buccolieri 2022, foto di Andrea Bianchera
Ciro Buccolieri 2022, foto di Andrea Bianchera

Ciro Buccolieri, fondatore di Thaurus insieme al producer italo argentino Shablo e Mario D'Angelantonio, è una delle figure principali del rap italiano, soprattutto perché è riuscito a raccontarlo in un periodo in cui l'asset non era mainstream. Una visione a 360 gradi sulle possibilità di espansione pubblicitaria di un artista, che ha dato la possibilità a Buccolieri di veder nascere i più grandi progetti post-2016, con protagonisti del calibro di Rkomi, Ernia, Noyz Narcos, Guè Pequeno et similia. Un player lontano dall'aspetto scolastico del manager, in grado di fotografare la scena e di disegnarne anche i contorni negativi, quelli legati all'accentramento dei poteri e la poca fiducia del proprio team: per questo ha scritto 16 comandamenti per il rapper italiano. Qui l'intervista a Ciro Buccolieri.

Come ti sei avvicinato al mondo della musica?

Questa è una cosa che faccio per passione, legata soprattutto al genere rap, non alla musica in generale, perché mi sono sentito rappresentato sin da piccolo. Credo che questa roba abbia una forza incredibile: riuscire a unire le storie di un ragazzo magari nato a 10mila km da me e la mia. Questa roba non è solo la canzone, è un’attitudine, il rap racconta la storia degli ultimi e degli emarginati e la traduce in un valore. Mi ricordo la storia di un ragazzino americano, che faceva il ballerino con la leggendaria Rock Steady Crew, che aveva un difetto alla gamba: quello diventò invece il suo punto di forza, il suo segno di riconoscimento. La stessa cosa per Fifty, che dopo una pallottola in bocca, è riuscito a diventare famoso con il flow trascinato.

Ciro Buccolieri 2022, foto di Lorenzo Villa
Ciro Buccolieri 2022, foto di Lorenzo Villa

Com’è partita l’avventura Thaurus e di cosa si occupa l’agenzia?

Mi sono avvicinato a questa cosa con l’ingenuità di un ragazzo di provincia, che si vedeva rappresentato in questa musica quando non era mainstream. Cercavo di dire agli altri: “Vedi che ‘sta roba parla di noi”. Per molti anni, quando volevi sentire questa musica, dovevi organizzare tu la serata. Poi Thaurus è diventata un’opportunità concreta negli anni 10, quando ci fu la prima esplosione mainstream con Fibra e con i Dogo. C’era un mercato in espansione ma non c’eravamo noi: i manager dei tempi erano grandissimi professionisti ma erano lontani da questo mondo, dai suoi stessi codici.

Un mondo che aveva bisogno di essere compreso prima di essere raccontato.

Non era difficile vedere un grandissimo artista essere rappresentato dal manager che aveva lavorato al gruppo rock, che non aveva lo stesso background: non riusciva a capire le differenze. Qui abbiamo provato a inserirci, a colmare il vuoto. In Thaurus, ovvero io, Shablo e Mario (D'Angelantonio), abbiamo provato a costruire una casa dove l’artista si potesse poggiare su tutti i lati commerciali della sua figura.

Cosa significa lavorare per un artista? Quali sono i compiti?

Son passati 10 anni quasi, non siamo certamente quelli di cinque anni fa, ma spero saremo differenti da ora a cinque anni. Secondo me è fondamentale una visione a 360 gradi per l’artista, la Big Picture degli americani. Ti puoi permettere di fare delle scelte anche di guadagno non immediato, perché riesci a diversificare le entrate, tra live, management, discografia. La discografia va di pari passo ai live, al brand, alle collaborazioni.

Che cosa rappresenta il criterio performativo in questa evoluzione del consumo musicale attraverso piattaforme di streaming?

Io non credo nella musica fast-food. Non credo sia una cosa da demonizzare, ma penso che diventare un artista sia profondamente diverso. La vera sfida è durare nel tempo, un’opportunità la possiamo avere tutti, poi sta a te riuscire a coglierla nel tempo. Per un ragazzo di oggi è difficile approcciarsi, scevro da paranoie, sul criterio performativo. Ormai anche la casalinga di Voghera, come il liceale, va dietro ai like e ai commenti. C’è una classe politica che costruisce un’intera campagna politica sui social, su TikTok, per capire il grado di gradimento. Non si può ignorare più quest’aspetto, ma la mia mission è non basare tutto su questo aspetto. Per prima cosa c’è la musica, il racconto e la verità, poi c’è il marketing: è una cosa piacevole, che mi stimola, ma non devono ribaltarsi i ruoli.

Due date: il 20 dicembre 2016 esce il singolo “Fuck Tomorrow” di Rkomi con Night, due artisti del tuo roster. 7 gennaio 2022, Taxi Driver di Rkomi è il disco più venduto del 2021, certificato da Fimi. Cosa è successo lì in mezzo e come ricordi quei momenti?

Quella roba lì non sapevo sarebbe stata pubblicata: ero in studio con Skinny e feci un audio a Mirko. Skinny prese l’audio e lo montò, diventando poi un classico. Se senti ciò che dico e poi ciò che è stata la carriera di Mirko, c’è una grandissima differenza, ma in quel momento era così. Per noi che ascoltavamo questa merda da una vita, sentire la scrittura onirica e i flow di Mirko, era una cosa incredibile.

"Il nuovo Nas": qualcosa che non sconvolse neanche gli ascoltatori più attenti.

La cosa che mi ha sconvolto, che poi ho scoperto anni dopo, è che Mirko è nato nello stesso giorno in cui è stato rilasciato “Illmatic” di Nas (19 aprile 1994). In quell’audio ho fotografato una connessione astrale che fa sorridere.

Che evoluzione ha vissuto Rkomi?

Mirko è un esempio di come il talento non debba essere trasportato dal genere. Lui non prova a fare la canzone rock o pop per vendere, ma per il suo approccio genuino alla musica, e questo si sente. Se lui domani vuole fare un pezzo metal, va lì e lo fa. Il risultato, il disco dell’anno nel 2021, è la dimostrazione che il suo talento sia riuscito ad arrivare a tutti.

Che cosa sono i comandamenti di Ciro Buccolieri?

Questa roba dei comandamenti era una cosa tra il serio e il faceto, un momento in cui ero stanco. Vedevo solo cazzate e mitomani, figli di un’approssimazione di questa industria. Mi misi in ufficio a scriverle e le pubblicai. Anche io sono ancora uno studente del gioco e quando capirò che non mi potrà insegnare più nulla, significa che dovrò lasciare andare.

Un gioco: ci sono tre concetti molto ampi che vorrei tu mi definissi. Il primo è "Unicità".

La cosa che più mi incuriosisce di un artista è vedere e capire la sua identità: per me vedere la copia della copia, per quanto fatta meglio dell’originale, non mi interessa. Chi vuole ascoltare sempre la stessa storia? Anche i tuoi difetti possono essere il tuo punto di forza: la matrice delle mie ricerche è proprio questa. Marra parla di Cosplayer ed è un po’ ciò che è diventata quest’industria, come le altre, per un pagamento dei dividendi anticipato, senza visione.

Il secondo è "Eredità".

Legacy invece per me è ciò che lasci alle generazioni future, che poi è ciò che hai fatto. Il valore del tuo passaggio ridefinisce la tua storia e basta vedere il ritorno di Deda e Neffa e ciò che conta il disco dei Sangue Misto, di cui si parla ancora oggi. Se si parla di "Mi Fist", di 2016, è perché sono usciti degli artisti, degli stili, che hanno influenzato generazioni future. Io nel mio piccolo devo molto di più, nella mia crescita, a modelli lontani 10mila kilometri da me, per come ho saputo osservare il loro lavoro, il loro insegnamento.

Il terzo è "Team".

Nessuno vince da solo, neanche negli sport individuali. Se non hai un team che suda con te, che vive con te, non puoi andare avanti. Forse solo Maradona vinceva da solo, ma si dimentica troppo spesso l’attacco di quella squadra, il centrocampo e la difesa. Dietro tanti fallimenti inspiegabili di persone talentuosissime nella musica, ci sono persone che hanno accentrato troppo, che non si sono affidate a un team leale, e c’è questa follia di essere un accentratore.

Qual è l'immagine che poi arriva al pubblico e agli addetti ai lavori?

Denota grande insicurezza: se tu sei sicuro di te, sei aperto al confronto.

Come può essere raccontato adesso Sfera Ebbasta?

Io credo che Sfera nasca per essere un’icona, lui è andato oltre il genere. Ha sconfinato il mainstream senza perdere una virgola del suo immaginario. Credo sia una delle cose più belle che sia capitata alla musica italiana negli ultimi anni. È stato una delle figure chiave di una rivoluzione ed è un punto di riferimento. È normale che smetti di essere chi sei, ma diventi ciò che rappresenti per gli altri.

E invece cosa sarà Rkomi, soprattutto dopo il successo di "Taxi Driver"?

Non è uno che si pone dei limiti, si mette in gioco senza alcun confine. Molte volte siamo noi, come esseri umani, a sentire il giudizio degli altri. Ognuno di noi può essere ciò che vuole, se hai la serenità poi di portarla avanti. Lui gioca, sperimenta e si lascia guidare da ciò che lo stimola.

"Botox" è uscito solo poche settimane fa, un'apertura al pubblico più ampia rispetto a "Pezzi" e "Mattoni". Com'è cambiato l'approccio di Night Skinny, non solo in studio?

Il suo approccio in studio è identico, lui fa musica perché ha bisogno di farla. Ogni giorno è in studio, anche adesso. Sperimenta tanto sulle combinazioni di artisti e suoni: come per “Pezzi”, così è stato per “Botox”. Certo che la differenza sta nel tipo di pubblicazione: “Pezzi” era un progetto indipendente, ma c'era la stessa pazzia che c'è in “Botox”.

Anche nella scelta dei cantanti da ospitare?

Le persone credono che ci sia una grande macchina dietro la musica, invece lui ha solo provato le combinazioni più interessanti in questo periodo. L’ho scritto in un post: Skinny riesce a fotografare la realtà in movimento. È innegabile che ci sono tanti artisti, nell’ultimo anno, che hanno cominciato a lavorare con le melodie, rispetto a prima.

Quale disagio è riuscito a rappresentare in questo momento?

C’è un altro concept dietro Botox: è la droga dei numeri, è la droga della mistificazione della realtà. Cercare di apparire giovani, sempre in forma, di apparire sempre con numeri pompati. Tutti abbiamo i momenti no. Era quel gioco di mettere e togliere la maschera.

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