Il 3 agosto del 1966, e quindi esattamente mezzo secolo fa, in cima alla classifica italiana dei 45 giri, la cosiddetta Hit Parade, troneggiava per la settima volta consecutiva un brano banalissimo nell’argomento – l’amore, pensate un po’ – ma atipico nelle trame musicali. Sarebbe stato il suo ultimo numero uno, dato che “Notte di ferragosto” di Gianni Morandi l’avrebbe di lì a poco spinto al gradino più in basso, ma il successo di vendite fu comunque rilevantissimo, abbastanza da scolpirlo fra i motivi più popolari dei nostri Sixties e da imporlo come evergreen; merito del terzo posto ottenuto alla manifestazione “Un disco per l’estate”, dopo i certo meno ricordati “Prima c’eri tu” di Fred Bongusto e “Se la vita è così” di Tony Del Monaco, e magari anche del poster allegato al disco (se non c’eravate, non potete avere idea di quanto i manifesti, li chiamavano in questo modo, fossero ambiti dai teenager dell’epoca), ma merito in primis della singolare struttura del pezzo. “Tema”, questo lo stringato titolo, evidenziava con la massima chiarezza possibile la caratteristica principale del gruppo, ovvero che i quattro musicisti, oltre a occuparsi dei cori, si alternavano tutti nel ruolo di cantante solista; nel caso specifico, la prima strofa era eseguita dal bassista Sergio Di Martino (classe 1946), la seconda dal chitarrista Giacomo Di Martino (1944), la terza dal tastierista Francesco Marsella (ancora 1944) e la quarta dal “nonno” della compagnia, il batterista Enrico Maria Papes (1941).
Loro si chiamavano I Giganti e, pur essendo catalogati come beat (o “bitt”, come scherzosamente si usava dire qui), non erano una band convenzionale; per via degli avvicendamenti al microfono, ok, ma pure per un sound dal quale emergevano influenze anni ’50, sia rock’n’roll, sia di area black. Del resto, quando nel 1965 adottarono la loro sigla storica, i tre più “anziani” avevano già alle spalle circa sei anni di militanza nel circuito del (neonato) rock milanese, accanto ad autentici pionieri del r’n’r tricolore quali Clem Sacco, Ghigo Agosti e Guidone; fondamentali, quelle poche primavere in più della media, per conferirgli maggiore fiducia in sé, oltre che la determinazione a cercare di tracciare una loro strada invece di limitarsi a cavalcare l’onda. Un obiettivo, appunto, pienamente centrato, come reso esplicito da “Tema” e, in particolare, da un altro loro classico che in linea di massima ne ricalcava gli schemi: “Proposta”, quella dello slogan pacifista “mettete dei fiori nei nostri cannoni”, giunta terza al Festival di Sanremo del 1967. Nel 1968, l’ensemble si sarebbe sciolto per poi tornare sulle scene con uno stile memore del passato ma aperto a nuovi stimoli: emblematico in tal senso l’album del 1971, “Terra in bocca”, un coraggioso concept di denuncia delle attività mafiose che viene quasi sempre inserito negli elenchi dei lavori più significativi del rock progressivo autoctono.
“Tema” e “Proposta” furono gli unici due brani dei Giganti a conquistare l’agognata vetta della Hit Parade e sono dunque i più conosciuti del repertorio, una buona spanna sopra “Una ragazza in due” del 1965 (che aveva scalato i Top 10 fino al quarto posto) e “Da bambino”, entrata nei Top 20 grazie alla partecipazione al Festival di Sanremo del 1968. Entrambe si sono guadagnate la luce degli spot dai quali sono tuttora illuminate, ma mentre “Proposta” appare saldamente legata al clima socio-politico del suo tempo (anche se, a ben vedere, una mobilitazione planetaria a favore dei fiori nei cannoni non sarebbe anacronistica, anzi…), “Tema” risulta ben più universale, con tre interpretazioni dell’amore diverse fra loro ma accomunate dall’amarezza e una, posta in chiusura, che mette in campo un curioso mix di buonismo e ingenuità:
“Credo nell’amor / in ciò che sente il nostro cuor /
so di non sbagliar / se dico che l’amicizia lo può dar /
L’arte è nel cuor / e la famiglia è calor /
poi una donna c’è / per completare questo nostro amor”.
Una sorta di versione ante litteram e mutatis mutandis della famigerata “Teorema” di Marco Ferradini (avete presente, no?), con in più un tocco filomoralista che oggi attirerebbe il dileggio o gli strali degli alfieri più oltranzisti del “politicamente corretto”. Quelli, però, erano i magnifici anni Sessanta nei quali la vita era più semplice, e per fortuna il presunto crimine è caduto in prescrizione; che poi il verso, sotto il profilo poetico, evochi la celebre battuta della Corazzata Potëmkin di fantozziana memoria, è naturalmente un’altra faccenda.