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C’è più luce in Motta: “Ho imparato che oltre al tormento c’è tanto da raccontare”

L’amore, Sanremo, andare via dalla città, il coraggio di parlare di ciò che viene dopo il tormento. Motta ha pubblicato il suo ultimo album, “Semplice”, un album più luminoso, come spiega a Fanpage.it, che conserva, però, alcune delle caratteristiche che ne hanno fatto uno dei musicisti più apprezzati d’Italia.
A cura di Francesco Raiola
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Motta (ph Claudia Pajewski)
Motta (ph Claudia Pajewski)

Quando ci siamo incrociati mesi fa, in una pausa tra una zona rossa e un'altra, Motta aveva una bella luce negli occhi parlando di quello che stava scrivendo. Non si sapeva ancora bene quando sarebbe uscito, ma parlarci ti dà sempre l'idea di quanto la musica sia un pezzo di sé. È vero, dire che la musica è un pezzo di sé, riferito a un artista, è ormai un cliché, ma col tempo impari a capire quando questo cliché vale la pena spenderselo e quando no. L'ultimo album del cantautore si chiama "Semplice" che ovviamente è di per sé una dichiarazione d'intenti, non tanto per le trame sonore del lavoro, quanto per un approccio sempre più di verità – o della sua ricerca, almeno – di un racconto che si dipana sempre di più e che in qualche modo mostra all'ascoltatore un percorso (svelato anche, lo scorso anno, in un libro pubblicato da Il Saggiatore). Musicalmente Motta lo conosciamo, ma al suo amore per le percussioni, questa volta aggiunge un lavoro imponente sugli archi, senza paura di citazioni dichiarate, come quella a Francesco De Gregori in "Qualcosa di normale", collaborazioni che rimandano a soluzioni nuove, come quella con Brunori e con alcuni punti fermi che ci tengono ancorati all'idea romantica che l'ascoltatore ha dell'artista che ama. Da una parte sperando che ripeta sempre le cose che di lui/lei amiamo, ma con la speranza di portarci sempre in un mondo nuovo. Motta non abbandona i loop, sia armonici che nella scrittura, ci regala lunghe strumentali che nei live si dilatano regalando uno spettacolo nello spettacolo e questa volta ci regala una versione più luminosa della sua vita.

È un album che se non vogliamo considerare più pacificato possiamo dire che ha ancora più amore?

C'è tanta luce. Mi hanno chiesto cosa fosse cambiato nel tempo, se non fossi più tormentato e io ho capito che non è che prima non avessi momenti felici, ci mancherebbe, solo che non avevo il coraggio di raccontarli. Mi sembrava più interessante narrare del percorso tormentato che narrare di quello che veniva dopo il percorso tormentato.

Si cresce, ci si evolve, ci si sposa…

E si va in Australia…

Vero, hai detto che il viaggio è stato una componente importante, in che senso?

È stato un viaggio diverso dagli altri perché essendoci stati un bel po' non c'era la necessità di cercare storie da raccontare, quel viaggio me lo sono goduto proprio. Arrivava subito dopo l'ultimo concerto dell'Auditorium, è stato un viaggio completamente diverso da tutti gli altri: ero completamente una spugna, senza essermi messo nella condizione di esserlo, lo ero e basta.

Ti sei messo nella condizione di conoscere te stesso: "Semplice come la paura di conoscere me stesso" canti a un certo punto. E, come sempre, l'io delle canzoni ha sempre molto a che fare con te.

Sì, spesso anche quando parlavo in seconda persona ero io a parlare. È un gioco di scrittura che a volte si fa per creare movimento, andare avanti, per non rimanere concentrati sull'autoreferenzialità; come raccontavo nel libro, quello è uno dei primi errori che si fanno quando scrivi.

C'è un grande senso di verità in quest'album, un'evoluzione del tuo racconto, ovviamente…

Ci sono due cose: una è che sono cambiato rispetto a prima e l'altra è che sono cambiate anche le parole. Sono due cose che vanno insieme, riuscire a scegliere le parole giuste – che magari sono anche più semplici di prima -, chiarisce alcune cose, per cui sembra che mi sia messo più a nudo. È stato quest'uso delle parole e della musica che ha permesso di arrivare a questo.

C'è una cosa che pare non cambiare, ovvero alcune caratteristiche della tua scrittura. Questa riconoscibilità della scrittura ti fa piacere o cerchi di sfuggirci per poi ritrovartici?

A volte ho cercato di fuggire e mi sono ritrovato là, rispetto a prima c'era questo "gioco di scrittura" che non era forzato ma era il mio modo di intendere la musica. Anche la ripetizione non è che la metto come condizione, però mentre negli altri dischi il loop armonico e percussivo sotto corrispondeva anche a un loop melodico della voce, qualcosa che tornava, in questo la voce si stacca da questi loop. Ci sono cose molto più cantate rispetto a prima: non che sia venuto meno questo mantra che c'è, c'è anche in tante code strumentali, ma questa volta la voce si stacca più spesso.

Musicalmente è un album vario, lo hai già detto, molto lavorato, con chiari riferimenti (Cure, De Gregori, mi è parso di sentire in alcune chitarre anche cose à la The XX), in che modo ti sei approcciato alla scrittura?

Anche se non c'entra assolutamente nulla, nella strumentale iniziale dell'ultimo pezzo ci sentivo molto King Krule. Guarda, è stato un punto di partenza, poi magari uno non se ne accorge perché il risultato magari non c'entra niente, però a volte i punti di partenza sono differenti da quelli di arrivo. Riguardo ad altri riferimenti, mi ha sconvolto l'ascolto del penultimo disco di Angel Olsen in cui c'è una ricerca sugli archi pazzesca, molto moderna; tutta la struttura degli archi, fondamentale in "Semplice", è stato il risultato di un lavoro fatto da Carmine Iuvone, che suona il violoncello con me e mi ha accompagnato dal tour con Les Filles des Illighadad in poi e abbiamo portato in versione quartetto quello che facevamo dal vivo col violoncello.

In effetti avevi detto che c'è molto live in quest'album, che è stato pensato ancora di più per essere suonato dal vivo. 

Tutte le volte che finivo i tour avevo l'esigenza di ripartire da zero, perché ripartire da zero voleva dire non dare niente per scontato. Non che l'abbia fatto in questo disco, però volevo andare avanti, non tornare indietro, e siccome l'ultimo tour è stato anche un modo per rigenerare le canzoni – e spesso mi dicevano che era meglio live che su disco e io ripeto che il contrario sarebbe stato un problema -, volevo ripartire da là. C'era quella voglia di condividere la musica, sembrerà una banalità ma io – che nonostante faccia un progetto solista ho tante persone con cui condivido i dischi, da Taketo Gohara a Mauro Refosco a Bobby Wooten, fino alla band – ho sentito la voglia di suonare con gli altri, perché questo momento di solitudine ha portato, nel mio caso, a fidarmi meno delle persone, ma ad avere voglia di fidarmi tantissimo delle poche persone di cui mi fido, appunto.

Senti e quella coda strumentale che chiude l'album come nasce?

Lì c'erano una parte A e una parte B che avevamo molto chiara. Dario Brunori mi ha aiutato, con la scrittura, nella prima parte, è entrato nella canzone e poi fin da subito, quando ho cominciato a scriverla, avevo chiaro che volevo finire il disco così. Rispetto ad altre code strumentali che ho fatto è una coda tribale e percussiva, per cui non c'è un'armonia di loop, era proprio come se fosse quello che rimaneva da raccontare. In questo caso, quello che mi è rimasto da dire l'ho fatto attraverso la musica. E poi c'è un accordo finale che è diverso da quello di partenza, come se fosse l'inizio di una nuova era, perché mi piace finire i dischi anche iniziando una storia, in qualche modo in "Vivere o Morire" c'era "Mi parli di te" che era un inizio, l'inizio di un nuovo modo di concepire il rapporto con mio padre, non c'era questa nuova era nuova era ma c'era comunque un'apertura che portava a un'altra cosa.

Quanto è stato importante andare via dalla città?

È stato fondamentale, perché la città mi portava a vedere in faccia tutto quello che non potevo fare. Io sono sempre stato un amante della città, della socialità, c'era sempre gente a casa a cena, era difficile che io e Carolina (Crescentini, ndr) cenassimo da soli. Attraverso le relazioni riuscivo a raccontare meglio me stesso nelle canzoni, ma a parte quello, mi è sempre piaciuto condividere la vita con le altre persone e dal momento che è venuta meno questa cosa ho sentito l'esigenza di cercare di creare un bel ricordo. Per farlo siamo dovuti andare a cercare cose nuove che mai mi sarei aspettato. Non che non fossi un amante della campagna, c'era sempre la voglia di staccare un attimo, però in questo caso ci ha salvato. Andavo a correre tutti i giorni, so che sembrerà una cosa poco rock'n'roll, forse però è la cosa più rock'n'roll che ho fatto, ed è stato bello. Detto questo, mentre cercavo di creare ricordi nuovi è stato difficile ricordarmi da dove venivo e cosa volevo fare nella vita. Ci sono stati periodi anche neri, in cui guardare la chitarra mi faceva paura, c'era sempre questo ricordo per cui faccio il musicista, che il mio posto preferito nel mondo è sul palco e anche se in questo momento non ci posso stare tornerà il giorno in cui succederà. C'è stato un momento di sintesi dei ricordi, quelli che sono andato a cercarmi e una sottile voce di sottofondo che mi diceva "Ricordati che non c'è mai stato un giorno in cui non ho pensato alla musica".

Andartene via è servito anche ad allontanarti dal "questo malato bisogno d'attenzione" che canti in "Via della luce"?

Diciamo che ho ridimensionato il mio lavoro, ho capito che è molto importante per la mia sopravvivenza, ma l'ho ridimensionato perché in fin dei conti il lavoro che faccio è un lavoro da artigiano. In qualche modo questa visione mi ha permesso anche di divertirmi di più a fare questo disco, senza far pesare a tutto il mondo che stavo cercando di mettere il cuore sul tavolo, io lo so che per me scrivere alcune cose è molto difficile però questo non deve prevedere che lo faccia pesare a tutto il mondo.

Quanto è stata importante Carolina?

Avendo trovato molto più equilibrio rispetto a prima mi sono reso conto di essere molto più pronto ad amare, quindi anche da lasciarmi travolgere da certe cose e questa cosa si sente nel disco. Detto ciò, nello specifico Carolina è sempre una che mi dà consigli su tantissime cose, a volte la prendo, la porto in studio per fare i cori, anche musicalmente è stata importante, mi ha fatto ascoltare un sacco di cose che io prima non ascoltavo, ascolta più musica lei di me, quindi è ovvio che è stata importante.

In "Le regole del gioco canti": "Sai che c’è, c’è che alla fine qui va tutto bene, sai che c’è, che lei dorme sul divano".

In quella canzone lì, in particolare, però io parlo a mia madre, ma Carolina mi ha aiutato a farmi rendere conto di quando sto bene.

In che modo hai imparato a gestire la popolarità, anche dopo Sanremo?

Sanremo? Quale Sanremo? No, scherzo, non parlerei mai male di Sanremo, mi ha dato tantissime cose, mi ha fatto crescere tantissimo a livello professionale. Guardandomi indietro rispetto ai lavori che ho fatto, però, non riesco a capire dove metterla quella canzone, perché per me è fondamentale fare gli album, e quella canzone la vedo come una parentesi che non riesco a collocare. Di solito tutte le canzoni che faccio sono relazionate a quelle che la precedono e la seguono, io ci metto tantissimo a fare le scalette degli album, penso che ci debba essere un racconto e fare tutto questo racconto attraverso una sola canzone mi sembra impossibile, è per quello che non riesco a collocare quel momento. Quell'esposizione però mi ha dato tanto, perché gente che non aveva la minima idea di cosa facessi per lavoro, ora sa che scrivo canzoni, quindi è stato utilissimo. Detto ciò, il fatto dell'esposizione, in generale, è un'arma a doppio taglio, perché a volte diventa più importante l'immagine di quello che uno fa. Quindi è vero che l'immagine a volte porta alcuni a dire "Fammi sentire cosa fa Motta", ma altre volte non è così, le due cose non vanno di pari passo. Penso che ci sia anche tanta gente che mi conosce e non ha mai ascoltato una sola canzone e questa cosa per me non è bella, diciamo che vorrei spingerli a fare anche quello.

In "Qualcosa di normale" hai cercato Francesco De Gregori, ma l'hai fatto anche pensando a un duetto?

In realtà no, cercavo De Gregori perché eticamente mi sembrava giusto fargli ascoltare quella canzone, era come per dirgli che senza di lui quella canzone non sarebbe mai esistita. Doveva passare da lui e mi sarebbe andata bene anche se non avesse risposto. Lui, però, è stato carinissimo, infatti non c'era richiesta dietro la mail ma è stato lui che mi ha detto che avrei dovuto cantarla con una donna.

E tu hai scelto tua sorella…

E io ho scelto Alice, sì, mi piaceva l'idea che quella canzone cambiasse prospettiva, perché cantare d'amore con tua sorella è diverso dal parlare d'amore e basta, quindi è stato molto bello.

L’album si chiude con “anche col cuore che balla, la lingua per terra, ci provo a cavarmela”, non so se l'hai scritta tu o l'ha scritta Dario ma è un finale perfetto, a proposito dell'importanza della scaletta.

Quella l'ha scritta Dario, io l'ultima frase di Semplice che ho scritto è "Per te che tutto è semplice, anche l'amore". Mi sono detto: quindi ci ho messo tre anni e dieci e più canzoni per arrivare a dire questa cosa qua? Sì, perché ci vuole tempo, c'è un processo di ricerca dell'essenziale che va in parallelo con la ricerca di eliminazione del superfluo, che è la cosa più difficile del mondo. È difficile accorgersi delle cose semplici, ma per me è stato difficilissimo cercare di eliminare quello che c'era in più, che non serviva; è stato un processo anche dovuto alla pandemia, tutti ci siamo posti domande apparentemente banali. Mi sono chiesto perché faccio questo mestiere e non mi era mai successo nella vita, oppure "come sto?" e queste domande dovevano creare un modo per cercare di trovare una risposta e non è stato per niente facile.

Il rapporto con "quei pochi che c'erano dieci anni fa" com'è?

Ho un bellissimo rapporto con quei pochi che c'erano dieci anni fa, credo sia stato fondamentale fare concerti in cui c'erano dieci persone davanti al palco, è molto più difficile cercare di mantenere l'attenzione e giustificare quello che fai, portare avanti la tua idea: un conto è farlo davanti a tanta gente, un altro è essere fragilissimi, perché quando ci sono dieci persone è come se non esistesse manco il palco, quindi per me quelle poche persone sono state fondamentali a farmi arrivare dove sono.

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