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CCCP-Fedeli alla linea: rabbia e radici

Trent‘anni dopo l‘uscita del loro primo disco, la band che fu soprattutto di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni non sembra affatto dimenticata. Affinché sia ricordata ancora di più, com‘è cosa buona e giusta, la Universal ha organizzato un ricco promemoria.
A cura di Federico Guglielmi
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Ecco finalmente un gruppo punk genuinamente nostrano che non si rifugia nel consueto tran tran di slogan triti e ritriti e sonorità tanto grezze e stereotipate quanto poco convincenti. CCCP-Fedeli alla linea è, almeno a giudicare dalle tre ottime canzoni di questo 7“EP pubblicato dalla Attack Punk, una band dotata di notevolissime capacità, in grado di comporre e interpretare con estro e originalità brani piuttosto atipici, non violentissimi sotto il profilo strettamente sonoro ma decisamente dissacranti per quel che riguarda i testi. È un punk strano, questo dei CCCP, dichiaratamente filosovietici e orgogliosi delle loro origini emiliane, e un punk creativo, musicalmente vicino a certe produzioni del giro anarchico britannico. ‘Se non vi intendete come noi di musica ma non per questo ascoltate i critici‘, riservate 3.000 lirette per questo disco, in culo a poseur e nazi-punk. Esattamente tre decenni fa, con tutto l'ardore dei miei ventiquattro anni, mi esprimevo così a proposito di “Ortodossia”, l‘esordio della band del cantante Giovanni Lindo Ferretti, del chitarrista Massimo Zamboni e del bassista (e programmatore della drum machine) Umberto Negri. In vendita dall'estate, benché con modalità da Carboneria, quel 45 giri con tre pezzi dai titoli sibillini ma eloquentissimi – “Live In Pankow”, “Spara Jurij” e “Punk Islam” – era uno dei casi del momento, che suscitava curiosità e interesse non solo nel circuito underground: in quello stesso novembre, del gruppo si parlò su “L‘Espresso” e “Panorama”, non proprio un fatto ordinario. Naturalmente, per i media di massa la musica era un optional o poco più; a far notizia erano le esplicite dichiarazioni di fede per l'Unione Sovietica (benché il processo di distensione fosse avviato da tempo, la Guerra Fredda era ancora in corso), l‘aggressività dell'approccio, la singolarissima teatralità. L'organico si era infatti già allargato con l‘arrivo della corista (e “soubrette”) Silvia Bonvicini e di altre due figure fondamentali, Annarella Giudici e Danilo Fatur.

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Eravamo troppo freddi, cerebrali, intellettuali. Dovevamo cambiare le carte in tavola, provare qualcosa di diverso. Al nostro palco mancavano dei corpi, il sudore del rock che noi avevamo sempre odiato, perché eravamo statici, asettici. Fatur era un artista/spogliarellista che avevamo conosciuto nel giro delle discoteche e la nostra amica Annarella era bellissima, nonché capace di catalizzare l’attenzione e valorizzare qualsiasi straccio indossasse. Stabilimmo così di portare in scena una donna che si vestiva e un uomo che si spogliava, il contrario di quello che di norma accade. Alla Festa dell’Unità di Modena presentammo per la prima volta Antonella e Fatur insieme, senza alcuna scenografia: una ragazza che usciva con abiti sempre nuovi da dietro un piccolo paravento e un ragazzo che all’inizio era vestito da militare e alla fine era nudo. Avevamo davanti settanta signore anziane e altrettanti punk, tutti impazziti. Lì è nata la spettacolarità dei CCCP, che per un annetto è stata travolgente. Nel periodo 1984-1986 avremmo fatto duecento date ovunque, spesso con locali devastati e botte. È strano: l’intera avventura CCCP, vista a posteriori, ha un notevole spessore intellettuale, ma in verità tutto succedeva sulla spinta degli eventi. Provavamo quel che ci passava per la testa, non razionalizzandolo più di tanto: erano intuizioni legate a una quotidianità concreta, non comprensibili subito. Avevamo la capacità di prevedere il futuro: Annarella si è vestita da musulmana e nel nostro primo video c’erano donne con lo chador. Avvertivamo nell'aria cose che sembravano evidenti solo a noi, delle quali eravamo i primi a stupirci”. Estrapolate da un'intervista di circa quattro ore concessami nel 2002, le parole di Ferretti fanno intuire la specialità dei CCCP-Fedeli alla linea e i motivi per cui la loro vicenda costituì, fatte le debite proporzioni, una sorta di versione italiana delle gazzarre messa in atto dai Sex Pistols nella Gran Bretagna del ‘76/‘77. Fino al 1990 che lo vide morire – salvo poi rinascere dalle sue ceneri, in forma diversa, come C.S.I. – il gruppo non mancò di farsi notare in mille maniere diverse: dai vari avvicendamenti attorno al nucleo Ferretti-Zamboni-Giudici-Fatur a quattro album più o meno memorabili (tutto un programma il titolo del primo: “1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi-Del conseguimento della maggiore età”), dall'EP “Compagni cittadini fratelli partigiani” ai singoli di liscio (ebbene, sì) e con Amanda Lear, dall'accordo con la Virgin che portò accuse di fedeltà “alla lira” fino ai concerti oltre la Cortina di Ferro del 1989. “Dall’inizio dicevamo che la nostra massima aspirazione sarebbe stata suonare a Mosca o a Pechino, e che quando ci fossimo eventualmente riusciti avremmo potuto considerarci realizzati”, mi disse ancora Ferretti. “I CCCP, in effetti, sono morti a Mosca, con i militari sovietici sull’attenti mentre eseguivamo ‘A Ja Ljublju SSSR‘”.

Martedì prossimo, il 25, i trent'anni “ufficiali” dei CCCP verranno celebrati dalla Universal con due box di vinili in edizioni limitate e numerate. Il primo conterrà la ristampa identica all'originale di “Ortodossia” e alcuni gadget; il secondo – “Stati di agitazione – 30 anni di CCCP” conterrà invece, oltre a due libretti e ad altri gadget, otto 33 giri con quasi l'intera produzione della band, compreso il postumo “Live In Pankow” che nel 1996 aveva visto la luce solo come CD. “Quasi” perché mancano all‘appello i pezzi dei singoli “Oh! battagliero” (1987) e “Tomorrow” (1988) e, considerata la ricchezza e il prezzo – 150 euro – dell'oggetto, includere pure quelli non sarebbe stato un grande sforzo. Una lacuna ovviamente marginale ma che un minimo infastidisce; giacché di speculazione comunque si tratta, non sarebbe stato meglio inserire i due 45 giri invece dei – perdonatemi se mi scappa da ridere – magneti con la riproduzione delle copertine degli album? Chissà perché, nell'allestimento delle operazioni di catalogo la nostra discografia major è bravissima a perdersi nei dettagli. Sempre.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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