È il 27 gennaio del 1966, cinquant’anni meno un giorno fa, al Salone delle Feste del Casinò Municipale di Sanremo. Va in scena la prima delle tre serate della XVI edizione del già celeberrimo Festival, che vede in concorso una ragazza emiliana neppure ventenne; per la kermesse è un’esordiente e ha alle spalle due 45 giri non fortunatissimi ma sufficienti a renderla chiacchierata. Del resto, non è la solita bella presenza alla quale mettere davanti un microfono, bensì una musicista autentica – suona oltretutto il basso, una rarità per quell’epoca, e lo fa addirittura sui palchi delle balere – che vanta un caratterino pepato. La sua canzone, proposta anche da Gene Pitney (allora si usava così), si intitola “Nessuno mi può giudicare” ed era stata scritta per il divo Adriano Celentano, che l’aveva però scartata a favore della malinconica, ecologista “Il ragazzo della Via Gluck”; perché non affidarla, allora, all’esuberante Caterina Caselli, che sembrava perfetta per contrastare la leadership al femminile di Rita Pavone? Detto, fatto. La giovane, con un abitino chic ben poco trasgressivo e il caschetto biondo ideato dai parrucchieri milanesi Vergottini, sale sul palco e spiazza subito tutti, eseguendo quel brano scatenatissimo – derivato da un tango, pensate un po’ che strano! – con freschezza e grinta davvero notevoli; lasciano il segno, soprattutto, i curiosi movimenti effettuati con braccia e mani, a quanto pare ispirati da quelli compiuti dalla nonna… quando mungeva le mucche.
Mentre “Il ragazzo della Via Gluck” non si qualifica per la finale (avrà tuttavia un enorme successo), “Nessuno mi può giudicare” diventa un tormentone; non vince il Festival ma spopola nei negozi, rimanendo per settimane in vetta alla classifica e arrivando a vendere circa diecimila copie al giorno. Impossibile resistere a quel ritmo così incalzante, a quelle evidenti strizzate d’occhio al beat, a quel testo – molto avanti per i tempi – in cui si racconta la vicenda di una signorina che, dopo essersi “presa una pausa” dalla sua relazione perché invaghitasi di un secondo uomo, decide di ritornare sui suoi passi; senza voler essere giudicata, però, pretesa piuttosto significativa per una società dove la parità fra i sessi era una conquista ancora lontana. Al fascino del disco contribuiva l’iconica copertina, perché ragazze con strumenti in mano se ne vedevano poche e quel bianco/nero un po’ misterioso faceva una gran bella figura. Lo comprarono pure i miei genitori, il singolo, e la loro copia originale – inequivocabile la scritta “Sanremo ‘66” in basso a destra – è oggi parte della mia collezione. Sono certo di averlo visto in diretta, quel Sanremo di cui pare si siano purtroppo smarrite le riprese Rai, perché a casa Guglielmi il Festival era un rituale e nonostante l’età – dovevo compiere sei anni – mi era stato permesso di rimanere davanti al televisore, ma chissà. Nessun dubbio, però, che la Caselli fosse scolpita profondamente nella mia memoria di bimbo; per qualche decennio ho avuto negli occhi l’immagine di lei che cantava con un fiore dipinto su una guancia e un altro sul dorso di una mano, ma non riuscivo a collegarla a qualcosa di specifico. La Rete mi ha fatto scoprire che si trattava di “Sole spento”, ma si era già nel 1967 e quella è un’altra storia.
Ritorniamo al 1966, quindi. “Nessuno mi può giudicare” è un’hit formidabile, viene registrata in spagnolo e genera addirittura un film omonimo, primo musicarello (non ridete: questo tipo di pellicole si chiamava così) con Caterina nei panni di co-protagonista, in cui sono interpretate ulteriori gemme come “L’uomo d’oro” e la “Perdono” che, trionfatrice al Festivalbar, darà il nome al sequel uscito pochi mesi dopo, sempre nel frenetico 1966. “Nessuno mi può giudicare”, ”L’uomo d’oro”, “Perdono” e gli adattamenti in italiano di “Paint It Black” dei Rolling Stones (“Tutto nero”), “Kicks” di Paul Revere & The Raiders (rimasta “Kicks”) e “I Put A Spell On You” di Screamin’ Jay Hawkins (“Puoi farmi piangere”) costituiscono la metà esatta del programma del primo LP della Caselli, edito ancora nel ’66 dalla CGD e intitolato “Casco d’oro”, come il nomignolo affibbiato a Caterina per l’appariscente acconciatura al famoso Sanremo del ’66 della quale si è accennato. Cinque o sei anni fa uno spacciatore di vinile me ne ha sottoposto un esemplare in condizioni perfette e io non ho resistito alla tentazione di consegnargli i settanta euro richiesti e portarmelo via. Ce l’ho in cornice appeso nello studio e mai avrei pensato che un giorno avrei celebrato per iscritto il mezzo secolo di vita della sua canzone più conosciuta, senza la quale il pop italiano avrebbe magari avuto uno sviluppo diverso. E questo non solo per ragioni artistiche: nel 1970 Caterina avrebbe sposato il figlio del proprietario della CGD, della quale sarebbe divenuta vicepresidente, per poi passare a seguire l’attività dell’altro marchio di famiglia, la Sugar, che ha lanciato fra i tanti Elisa e Negramaro. Di questo, però, ci si occuperà nel caso in un’altra occasione; per il momento, c’è solo da augurare “buon compleanno” a una cinquantenne che rimane tuttora bellissima. Una verità che, parafrasando il ritornello, non fa male. Oh, no, nemmeno un po’.