Capossela su Canzoni della Cupa: “Racconto storie che attingono da un tempo immobile”
Dopo il concerto del 28 giugno alla Cavea dell'Auditorium Parco della Musica di Roma con cui Vinicio Capossela ha dato il la al suo nuovo tour con cui ha presentato l'ultimo album "Canzoni della Cupa", il cantante ha incontrato alcuni giornalisti per rispondere a qualche domanda sullo spettacolo appena concluso e sul nuovo lavoro. Stanco ma contento, il cantante ha spiegato dove nasce "Canzoni della cupa", parlando della sua dedica a Bud Spencer e della costruzione di un concerto che è più un lungo racconto a tema. Anzi, a temi, con la Polvere e la frontiera che si sono inseguite per tutta la serata.
Il resoconto riportato è frutto delle risposte che Capossela ha dato a vari giornalisti presenti alla serata.
La cultura della terra
Questa non è musica di tradizione, è una musica che attinge a un patrimonio culturale che è quello della terra, in cui non vedo profonde distinzioni tra nord, sud, ma si riferisce ciò che non è urbano. Canzoni che non fanno parte di un'operazione di folk revival o di un'attenta operazione con la musica tradizionale, ma la materia di questo lavoro è questa cultura della terra in cui siamo radicati.Non è un'operazione filologica, insomma, ma solo un'immersione nella terra e io vorrei tanto che chi esca da questo concerto si senta sporco di paglia e di terra e senta questa cosa della polvere.
Il ricordo di Bud Spencer
Ho ricordato Bud Spencer perché il nostro concerto vuole rievocare un concetto di frontiera, di polvere e per me la frontiera è sempre stata il western all'italiana. Queste canzoni nascono da un bacino che è l'Alta Irpinia, luogo di cui era originario Sergio Leone e ci ho sempre visto una rimodulazione che a me ha dato sempre lo spazio in cui fare fiorire certe cose. Non c'è un paradiso perduto nella cultura della terra, del Sud: sono storie di fatica, fame, miseria, però mi è sempre venuto di rimodularle in questa chiave di frontiera, come il western, appunto, che ci ha dato una lettura di certi paesaggi in chiave epica, ma un'epica alla nostra portata, quella che Bud Spencer ha trasformato in un'epica che è appartenuta alla nostra generazione.
Come è costruito lo spettacolo?
L'ho costruito così: innanzitutto c'è un'ambientazione che è il grano e c'è una stagione, l'abbiamo fatto iniziare nella notte di San Giovanni, questa notte era quella di Pietro e Paolo, il santo Paolo delle Tarante dandogli un'ambientazione nelle ritualità del calendario. Abbiamo ambientato queste canzoni in una specie di campo di grano, un campo in cui emergono dei rottami della civiltà, della terra: pezzi di luminarie, un cranio di bivacca, un residuo di festa di paese e quindi inizia con la bestia nel grano. Poi tutto ciò che è connesso al grano ha a che fare con la fertilità, con un rapporto diretto con la terra, per questo siamo vestiti di paglia e grano, per celebrare l'abbondanza. Dopo la festa del grano si prosegue con una serie di quadri femminili e una serie di pezzi che sono più notturni tipo "Scorza di mulo", "La notte di San Giovanni" e alcuni pezzi di Matteo Salvatore. È tutto ambientato nella stagione estiva, all'aperto, di notte o di giorno, fino ad arrivare a questi pezzi più da festa nell'aia e come sempre finisce con tutto ciò che è legato alla comunità, con lo sposalizio, come succede in "Amarcord" o ne "Il tempo dei Gitani", tutto quello che riguarda una comunità inizia e finisce con un matrimonio, un camposanto, e perciò questa parte termina con lo ‘Sposalizio di Maloservizio', il pezzo in cui tutto trova il suo apice. Da lì inizia il recupero di brani dai dischi precedenti, "La marcia del Camposanto" e "Al veglione", pezzi antecedenti ma ambientati in questo genere di cultura; negli sposalizi, poi, c'erano sempre i non invitati ed erano i più ingombranti, ma senza di loro non c'era la festa e così ho inserito un po' di personaggi ingombranti del mio repertorio, tipo il Maraja, l'uomo della cantina, San Vito. Il concerto poi si chiude riprendendo "Il treno", questo modo di lasciare un posto. Il grande evento a cui stiamo assistendo è questa migrazione storica, una di quelle migrazioni bibliche a cui assistiamo distrattamente ma che è il vero evento centrale dei nostri tempi. Non bisogna pensare solo alla gente che arriva, ma a cosa lascia, come i flussi economici che svuotano terre intere e a quel punto la comunità si rinnova soltanto nel racconto.
Un album che racconta storie di un tempo immobile
Ho cominciato a lavorare a questo disco nel 2003, nel 2002 ho incontrato Matteo Salvatore, nel 2001 ho visto i Calexico per la prima volta, sono tutti eventi che hanno dettato la strada di questo percorso: dal 2007, prima col Formicoso, poi con la Banda della Posta mettendo insieme queste cose qua, andando in giro facendo musica da ballo in posti minori, perché sono convinto che ci sia qualcosa di politico nel fare certe cose e secondo me la poetica può convivere con la politica senza per questo diventare demagogia o un'altra cosa. Secondo me è politico fare il Rebetiko, così come è politica l'idea di ballare abbracciati e così abbiamo fatto molti concerti unendo canzoni anarchiche, sonetti popolari e la musica da ballo. Poi è arrivato Il Paese dei Coppoloni e così via, finché alcune persone a cui tengo sono vive io volevo che questo disco uscisse, quindi mi sono obbligato a finire sia il libro che le Canzoni della Cupa che però attingono a un tempo immobile. Quando ci si confronta con questo tempo non c'è più l'urgenza, non stai parlando della tua fidanzata che t'ha lasciato, ma di un tempo immobile che esiste soltanto nel racconto a cui si torna così come tornano le stagioni, qualcosa che non ha una reale urgenza, che si trova quando serve.