Come ormai sa più o meno chiunque, già da cinque giorni è in circolazione un nuovo brano dei Bluvertigo, a ben quattordici anni dai due – “L’assenzio”, proposto con scarso successo al Festival di Sanremo, e “Comequando” – inclusi a mo’ di extra nell’antologia “Pop Tools” del 2001. Di lì a poco, il gruppo del cantante e bassista/pianista Marco “Morgan” Castoldi, del tastierista e sassofonista Andrea Fumagalli, del batterista Sergio Carnevale e del chitarrista Livio Magnini si sarebbe “congelato”: una fase di semi-ritiro dalla quale è comunque riemerso in svariate occasioni, assecondando le nostalgie e strappando scampoli di tempo alle loro attività in proprio, con quelle di cantautore e personaggio pubblico del frontman maggiormente sotto i riflettori. L’ultima volta è stata lo scorso 1° maggio, al concertone romano di Piazza S. Giovanni, dove hanno presentato anche “Andiamo a Londra”; sì, il “singolo” cui si è accennato righe sopra, scritto con la collaborazione di Mika e Guy Chambers (autore di Robbie Williams). E non è finita qui: per i primi mesi del 2016 è stata annunciato l’uscita di un album, il quarto di studio della formazione monzese, sobriamente intitolato “Tuono – Tono, Tempo Suono”. A fidarsi di quanto anticipato dai diretti interessati tramite la loro etichetta, la potente Universal, “sarà pieno di influenze e di cose mai sentite. Sarà qualcosa di completamente nuovo”. Un proclama sullo stile di altri addirittura più roboanti del passato, di cui attendo con curiosità di testare la fondatezza cercando di bypassare il senso di disagio provocatomi dall’ascolto di quella centrifuga di luoghi comuni – abbastanza acuto solo il testo – che è “Andiamo a Londra”: canzoncina di consumo ben confezionata, ma secondo canoni estetici con i quali non sono affatto, diciamo così, “in sintonia”.
Della divergenza, in verità, non mi stupisco, alla luce del rapporto piuttosto conflittuale che ho sempre avuto con i ragazzi. Nel 1995 maltrattai l’esordio “Acidi e basi” e due anni dopo replicai con “Metallo non metallo”, finendo sulla lista nera di Morgan che, intervistato da Radiorai, mi accusò di aver recensito il disco senza averlo ascoltato; la collega che conduceva il programma mi telefonò subito per avere la mia versione, e da questo derivò una gazzarra in diretta. Fui invece più tenero con il terzo lavoro, “Zero” del 1999, che creò anche l’occasione per fumare il calumet della pace con una lunga e bella intervista. Però, insomma, a parte qualche brano i Bluvertigo non mi sono mai piaciuti, esattamente come non mi è mai piaciuto né il modo in cui hanno indirizzato il talento che senza dubbio posseggono, né le loro smargiassate (beh, soprattutto di Morgan). Al di là di questo, non posso tuttavia negare che la loro è stata una presenza di rilievo nella musica italiana “alternativa” degli anni ’90. Peccato, naturalmente dal mio punto di vista, per come hanno voluto gestirsi, sottolineando in ogni occasione il loro ritenersi Artisti con la A maiuscola e attribuendo un peso esagerato alle questioni di immagine. D’accordo, tutti o quasi i loro riferimenti dichiarati – da David Bowie ai Depeche Mode, dai Roxy Music ai Kraftwerk, dagli Ultravox ai Devo – concepivano il look come elemento essenziale della loro espressione, ma nel caso dei Bluvertigo quello che si vedeva sembrava essere più importante di ciò che si ascoltava. Non era così, perché le buone idee non mancavano, ma negli anni ’90, dopo l’orgia di synth-pop e di pagliacciate del decennio precedente, una larga fetta della platea rock in cui il gruppo avrebbe dovuto pescare i suoi estimatori tendeva a eleggere come beniamini figure di altro genere. Legati agli anni ’80, controcorrente, arroganti e pop: nell’Italia underground della seconda metà dei ‘90, Morgan e compagni erano la perfetta band da odiare. Una fama che non li ha danneggiati e che – anzi – li ha aiutati a ritagliarsi uno spazio e a costruire una solida fanbase.
Il ritorno dei Bluvertigo, non per uno dei soliti “toccata e fuga” ma con un progetto che si preannuncia più concreto e più continuativo, rimane comunque un’incognita. Il fatto che Morgan sia oggi famosissimo, purtroppo più come faccia da schiaffi televisiva che per la bontà della sua carriera da cantautore, garantirà di sicuro una bella promozione, ma il rischio è che il pittoresco “contorno” svii una volta in più l’attenzione dalla musica. Una strategia che potrebbe avere senso e rivelarsi persino vincente, se l’album fosse tutto – non me lo auguro, eh: al massimo, lo temo – dello stesso livello di “Andiamo a Londra”.