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Biagio Antonacci: “Non sono pronto alla pensione, vorrei fare il direttore artistico di Sanremo”

Biagio Antonacci è in tour e si racconta a Fanpage a partire dall’inizio degli anni 90, quando da geometra si ritrovò cantante di fama nazionale.
A cura di Francesco Raiola
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Biagio Antonacci in concerto (Simone di Luca)
Biagio Antonacci in concerto (Simone di Luca)

Nel 1992 Liberatemi cambiò la vita di Biagio Antonacci che diventò un pilastro della musica italiana degli anni '90, riuscendo a non perdersi e a crescere anche successivamente, arrivando oggi a riempire i palazzetti italiani. Appartenente a una generazione che vendeva gli album fisici, si ritrova oggi a lottare contro i numeri in streaming, ma non se ne fa un cruccio, anzi: "Finché avrò gente sotto al palco sarò contento". E se anche tutto questo dovesse finire non sarebbe uno choc, come spiega a Fanpage. Si definisce un uomo libero, consapevole, che ormai può viversi la musica come se fosse un hobby, senza che sia il suo primo pensiero quando apre gli occhi, come succedeva quando cercava di farsi spazio. Anzi, oggi pensa anche a una seconda carriera, televisiva, magari, al Festival di  Sanremo come sogno. Ma che nessuno pensi che sia pronto ad andare in pensione, anzi.

Com'è essere Biagio Antonacci nel 2023?

Intanto di sicuro esisto, ed è già un bel colpo esserci: "Tutto sommato è sempre meglio esserci" come scrivevo in una canzone che amo molto del disco "Visibili dallo spazio". Esserci vuol dire ancora salire sul palco e vedere che c'è gente che aspetta Biagio, perché potrebbe essere anche un'illusione: finché non vivi l'esperienza di salire su un palco non puoi capire se qualcuno c'è. Prima di pensare al prossimo tour mi sono passate per la testa tante cose: tre anni e mezzo di assenza, una discografia che è cambiata, un mondo che è cambiato dal punto di vista di classifiche, di musica… È cambiato il mondo della musica, però alla fine ci siamo: quando sali sul palco c'è ancora gente che ti aspetta e che quando scrivi una canzone e prepari un album lo canta. Ci sono le canzoni del passato, ovviamente, che non è una cosa scontata, ma è il presente la vera realtà. Oggi Biagio è un uomo risolto, che nella sua testa non ha più l'ambizione di conquistare qualcuno o qualcosa, quindi la musica diventa importante, ma non come lo era prima.

In che senso?

Che non è più il mio primo pensiero quando mi sveglio e apro gli occhi. Oggi ho un figlio piccolo, una vita privata, un'azienda agricola, produco olio, faccio tante altre cose. La musica è rimasta, oggi è diventata l'hobby che era all'inizio della mia vita.

In che modo torna a essere un hobby? Non è facile essere pacificati rispetto a una nuova generazione che avanza e una evidente difficoltà numerica, no?

Io ricordo che quando alcuni colleghi a un certo punto della loro carriera si sono ritirati mi sono sembrati molto strani. Quando si ritirò Fossati, aveva sessant'anni, quelli che compirò io il 9 novembre, mi sembrò una cosa strana: perché un uomo come lui si ritira, cosa gli ha fatto la musica? E invece no, probabilmente ci sono dei momenti in cui capisci che veramente quello che hai fatto è stato un grande dono e diventa un po' anacronistico quando cerchi di lottare come fanno gli altri per essere sempre primo.

Quindi cosa si fa a quel punto?

Puoi fare una cosa divertente: sperimentare. E cosa vuol dire sperimentare? Fare cose che non avresti fatto prima. Vedi il caso del mio nuovo singolo, ovvero un pezzo con un dj importante come Benny Benassi, ovvero una canzone che, scritta con un team di giovani, ti fa abbandonare le ali del cantautore e diventare un uomo più libero, più leggero, con meno paure nei confronti della prestazione fisica o psicofisica.

In questo periodo di pacificazione rispetto al cambiamento, come cambia l'approccio alla discografia? Pensi di poter non uscire più con gli album, ma solo con singoli, per esempio?

Quello che consiglio a chi è più giovane è di essere consapevole di se stessi, perché solo con la consapevolezza raggiungi una sorta di libertà. Quando, trent'anni fa, cantavo "Liberatemi", ero convinto che la libertà fosse la libertà dell'essere umano di fare tutto quello che vuole. Ma non esiste questa forma di libertà, non potrai mai essere veramente libero, perché vivi in una società in cui la libertà è nascosta, è polvere sotto il tappeto. Quindi non sentirti libero perché ti fanno abbassare le orecchie, però puoi essere consapevole di questo, se conosci te stesso e sei consapevole riesci a raggiungere la parte più alta della tua anima e quindi la consapevolezza ti fa capire quali sono i tuoi limiti e quando li conosci non li subisci.

Oggi senti dei limiti?

Forse essere consapevole che probabilmente il prossimo disco non andrà prima in classifica, come è successo per 25 anni. Ma so perché succede; perché lo streaming è un'altra classifica: i giovani fanno un clic anche solo per curiosità, mentre una volta si andava a occupare un cd, ma non per curiosità. Si entrava in un negozio, si comprava un disco, si pagava, si parcheggiava la macchina o la moto e si tornava a casa. Oggi il clic fa classifica, ma il mio pubblico non è un pubblico di cliccatori, è un pubblico di gente che aspetta un progetto, quindi le classifiche, per noi, non possono mai essere una soddisfazione. Ma ormai è una consapevolezza, quindi non mi fa venire l'accanimento. Insomma, se mi dici "Vai sul palco, non ci sarà nessuno" magari l'umore potrebbe cambiarmi, ma ti posso anche dire questo: ho avuto talmente tanto da quel palco, ho sudato talmente tanto sia per arrivarci che per restarci che comunque, anche se ci fosse un mio ritiro, sarebbe tutto consapevolmente progettato, non mi lascerebbe sotto choc.

Quindi la domanda sul tuo sentirti ancora influente perde di senso, no?

Il mio grande catalogo, quello che mi permetterà di vivere tutta la vita, è un catalogo di cantautore, vuol dire che i miei figli guadagneranno ancora su quello che io ho scritto anni fa, dal punto di vista economico. Sai, quando un ragazzo viene dalla periferia e ha lottato con se stesso per arrivare a essere indipendente dalla sua famiglia e cercare di cambiare la vita anche della propria famiglia, e capisce che tutto quello che ha fatto è bastato, allora non te ne frega più. Non considero più neanche la questione dell'influenza, di quanto possa essere influente, so che ricevo messaggi da parte di un pubblico ancora abbastanza giovane. Attenzione, però, non sto parlando come uno che si sente pronto per andare in pensione perché i numeri non dicono questo. Sto parlando di un uomo consapevole di quello che fa oggi con la musica. Poi potrei fare cinema, potrei fare teatro, potrei fare anche televisione, mi sento anche pronto.

E cosa faresti?

Mi piacerebbe un giorno poter presentare il Festival di Sanremo. O forse più che presentarlo farne la direzione artistica dopo Amadeus. Lui mi ha insegnato tanto, è un uomo che ha fatto in questi anni un festival rilassando tutti gli altri e unendo i giovani e meno giovani nella stessa categoria. Quello che a me piace fare è dedicarmi ai nuovi talenti, scoprire nuove generazioni, quello potrebbe essere un lavoro. Quindi ci sono tante cose da fare legate alla musica, senza più essere io là col microfono in prima fila.

In un'intervista di 30 anni fa dicevi che da parte dei giovani c’è voglia di collaborare, ma erano quelli più grandi a fare fatica a farlo e a cantare insieme: "C’è più collaborazione tra noi" dicesti… Adesso sembra quasi il contrario, anzi c'è molta collaborazione tra generazioni diverse.

L'altra sera ho cantato con Tananai "Sognami" e c'erano 10.000 persone che cantavano una canzone che ho scritto quando non erano neanche nati. E con Tananai vicino mi sono sentito come se cantassi con mio figlio, ma non c'era quella differenza che sentivo io quando cantavo con Lucio Dalla, che mi sembrava di cantare con una montagna irraggiungibile. Oggi è tutto fattibile.

È cambiato anche il concetto di fama e popolarità…

Sì, oggi è tutto molto più veloce, la fama è anche un po' di passaggio. Purtroppo o per fortuna delle nuove generazioni, perché se uno poi alla fine avesse successo in un periodo, si realizzasse, e poi andasse a fare un altro mestiere o girare il mondo sarebbe una figata. Cioè io sono contro l'accanimento al successo, ma non l'avevo neanche quando ero giovane, mi veniva tutto così facile: mi veniva normale scrivere una canzone di successo, mi sembrava tutto così facile, però non si mollava mai. Oggi alcuni giovani fanno successo nel giro di un anno, fanno gli stadi, poi magari dopo poco cambiano le tendenze però quel poco del loro successo potrebbe permettergli di essere consapevolmente liberi.

Il tuo successo è arrivato al terzo album, ma se non avessi sfondato con quello ho letto che forse avresti mollato. Che sarebbe successo senza il successo di "Liberatemi"?

Avrei continuato a fare il geometra: io lavoravo in un cantiere, facevo il geometra, ero diventato capo cantiere. Mi ero detto che se entro i trent'anni non avessi vissuto di musica avrei mollato, non avrei mai fatto l'accattone della musica, mendicare un posto per andare a cantare. Per me la musica era la regina, o conquisti la regina o eviti quel castello e avrei continuato a fare il geometra, ero anche bravo; avrei continuato a farlo pensando sicuramente anche di non aver mai avuto l'opportunità per avere successo, perché poi si resta male quando non succede, anche se vuoi essere superiore o sei consapevole, l'insuccesso te lo porti per tutta la vita dietro.

Quando hai capito che potevi non fare più geometra?

Quando cominciai a fare dei concerti estivi. Il mio capo da geometra mi lasciava libero un mese e mezzo invece che un mese e io da metà luglio fino al cinque di settembre andavo a fare i concerti nelle piazze e quando uscì "Liberatemi" e prima ancora "Come siamo tanti al mondo" feci una trentina di concerti con cui praticamente guadagnavo, a data, quello che guadagnavo al mese come geometra. A quel punto il mio capo mi diceva: "Ma perché vieni ancora a lavorare?" e io gli rispondevo: "Perché ho paura che finisca tutto, qua finisce tutto presto". Allora stavo comprando la casa ai miei genitori  e mi disse "Vedo che i soldi della casa per i tuoi li porti, ma che ti frega, vivi di musica, tanto c'è sempre tempo per fare il geometra!" e quelle parole mi illuminarono.

E quali sono stati altri sliding doors della tua carriera?

Quando nel 1998 uscì il singolo "Mi fai stare bene" – che dava il nome al mio primo disco prodotto da solo, dopo Mauro Malavasi – andò malissimo. La storia è curiosa perché l'album uscì a giugno e a metà agosto era già fuori dai 100 della classifica italiana. Ero in uno stato un negativissimo, pensavo di aver fatto una figuraccia, mi dicevo: "Hai voluto fare il disco nuovo da solo e hai fatto una cazzata". Poi uscì "Quanto tempo e ancora" e pian piano gli ordini resi cominciarono a tornare nei negozi, cambiò proprio la storia del disco, dopo uscì "Iris" ed entrai nei primi dieci in classifica, quindi da fuori dai 100 in pochi mesi andai primo. Vendemmo 900.000 mila copie in quel periodo.

All'epoca, infatti, Iris era ovunque, nelle radio, in tv col video…

Io oggi devo cantare Iris nei miei dei miei concerti perché è uno dei miei successi più grossi, ma poi dopo ne sono arrivati altri. Lì mi sembrava la fine, il culmine, pensavo di non poter fare di più: nel 2001 pubblicai un disco molto intimista che si chiamava "9/NOV/2001", da cui uscì "Ritorno ad amare", che era un pezzo bellissimo, poi uscì una compilation con "Le cose che ho amato di più" e "Ti ricordi perché" che erano due inediti che andarono bene e poi mi sono inventato il colpo di "Convivendo" che è stato un altro album di rivoluzione, perché ha quattro pezzi che sono nella mia storia, nella mia discografia, tra i più importanti. Sto parlando di "Non ci facciamo compagnia", "Passo di lei", "Convivendo" e "Sappi amore mio". Quel disco fu veramente importante, mi fece vincere un premio in America come artista dell'anno del 2005 e fu un'altra stagione che non mi aspettavo di arrivare a vivere.

E quella di "Non vivo più senza te" te l'aspettavi? Non era una cosa scontata quella di tirare dal cilindro un tormentone estivo…

No, non lo è, l'album stette in classifica per undici settimane e fu un altro dei piccoli record della mia carriera. Vendette 350 mila copie circa, che a quei tempi erano tantissimi perché già non si vendevano più molto fisicamente. Quella era una canzone che non volevo fare, perché era talmente diversa da questo disco, però quando i discografici l'hanno ascoltata mi dissero subito che era il pezzo dell'estate benché io pensassi che fosse un po' leggerino, così rafforzai il testo. Se la senti bene è una canzone struggente, perché c'è dentro tanta malinconia e una voglia di riscatto incredibile.

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Hai mai sofferto di sindrome dell'impostore?

Come no! Ma tutto il nostro lavoro è basato su questo, tutta la nostra carriera è basata sulla sindrome dell'impostore, cioè a volte ti chiedi se non sei un miracolato e se quello che hai fatto non sia solamente una parte di presunzione premiata. Ti dici: non è che tutto questo enorme riscontro da parte del pubblico scompare? Temo che possa svegliarmi e capire che è stata tutta fortuna. Poi quando canto le canzoni mi metto cuore in pace perché capisco che erano molto ispirate. Noi siamo dei teatranti premiati dal pubblico, ma di questi premi noi saremo i portatori della sincera verità?

Spesso parliamo di artisti che sono considerati "figli di". Com'è essere padri di quei figli? Ti senti responsabile del loro lavoro, del successo o dell'insuccesso?

Io mi sento parte del loro successo perché arriva da me. Pensa a Paolo, che oggi è uno degli autori più importanti in Italia, lui è come me quando avevo la sua età, io mi riconosco proprio in pieno in lui. A 27 anni ero uguale a lui, forse non avevo avuto successo subito: io avevo voglia di uscire dalla strada e facevo fatica, lui aveva voglia di essere poeta, ma anche di uscire dal cognome che porta, quindi erano due modi di riscatto completamente diversi, ma entrambi con un unico valore, quello di tirar fuori quello che abbiamo dentro e cercare di farlo perché tu alla fine hai solo una cosa: un talento, e non devi dire grazie a nessuno.

Quindi prima di presentarlo o farne la direzione artistica ti piacerebbe andare a Sanremo con un pezzo scritto da lui?

Sarebbe bello, anche perché penso che oggi lui sia il riferimento, mentre Giovanni mi segue più sui social, mi dice se sono boomer.

A chi fai sentire i pezzi quando scrivi?

Paolo è la prima persona a cui faccio sentire un pezzo e Paolo fa la stessa cosa con me, la prima idea che ha di ogni pezzo che sta scrivendo, anche con altri, me lo fa sentire subito e io a volte ci prendo e a volte no.

Ma tu Rozzi di Paky l'hai sentita?

Come no, certo!

Rozzano è fucina di talenti, penso anche oltre la musica, a uno scrittore come Jonathan Bazzi…

Erano tutti figli miei, loro, pensa che Jonathan è il figlio di un mio  carissimo amico, l'ho visto fin da neonato, ero in ospedale quando nacque, mentre Paky non l'ho mai conosciuto ma racconta Rozzano come io non l'ho mai raccontata, grazie a Dio! Alla fine leggo in loro quello che avrei voluto dire io solo che per una questione mia, di esperienza, non ho mai toccato l'argomento della Rozzano che ho vissuto personalmente. Io l'ho vissuta negli anni '70, quando veramente c'era da aver paura a girare per strada, è stata una grande scuola di vita, la mia Rozzano mi ha insegnato a vivere, mi ha insegnato a difendermi, mi ha premiato con i sogni che erano enormi. Chi sognava a Rozzano, sognava oltre i confini.

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