Ci sono un paio di minuzie che trovo però sempre sgradevoli, quando scrivo de I Cani. La prima è l’odioso articolo che mi obbliga a usare – come qui sopra – la formula “de I Cani” e non quella, più fluida, “dei Cani”; la seconda è il fastidio provato nel definirli “band”, perché se è vero che sul palco l’entità anomala “I Cani” si presenta come gruppo, non è mai stato in discussione che il progetto sia gestito da un’unica persona, il trentenne (ad aprile) romano Niccolò Contessa. Fu lui, nel giugno 2010, ad adottare il curioso nom de plume per divulgare via Web i brani “I pariolini di diciott’anni” e “Wes Anderson”, confezionati in solitudine e senza grandi ambizioni, che nel loro (nemmeno tanto) piccolo raccolsero consensi. Più del loro pop elettronico minimale e ossessivo, della voce sussurrata e pigra e della trovata del nascondere (inizialmente) identità e volto del protagonista, piacquero i testi, finestre spalancate su una realtà giovanile nella quale, nonostante lo scenario rigorosamente capitolino, si identifica(va)no molti ragazzi di ogni parte d’Italia. Ne derivò un notevole hype non solo a livello underground e Contessa, corteggiato da svariate etichette, fu in pratica costretto a comporre altri pezzi e ad avviare concretamente – benché con qualche perplessità – una vera carriera.
Dicevo prima della questione dell’articolo e, ok, cazzeggiavo ma in fondo pure no, perché digitare “Il sorprendente album d’esordio dei I Cani” – uscito nel giugno del 2011 per la rinomata 42 Records, come tutti i dischi successivi – mi provoca disagio, peraltro attenuato dall’approvazione per un titolo che voleva rispondere con ironia alle pressioni e alle attese nel frattempo maturate. Come prevedibile, la scaletta rispecchiò lo stile delle anticipazioni (divenute tre, con l’aggiunta de “Il pranzo di Santo Stefano”): una vivace sequenza di quadretti elettronici essenziali ma non poveri, efficaci sul piano dell’appeal ritmico-melodico e nella capacità delle parole di raccontare, con un linguaggio di raffinata semplicità, altre storie di quotidiana post-adolescenza; assieme alle tre già note, “Hipsteria”, “Door Selection”, “Velleità”, “Le coppie”, “Post-punk” e “Perdona e dimentica” fotografano nitidamente lo spirito, chiamiamolo così, di un’intera generazione, così come hanno fatto, con modalità diverse e con diverse generazioni, Le Luci della Centrale Elettrica, Offlaga Disco Pax e, sì, 883. E che sia un brano de I Cani ad aprire “Con due deca”, il tributo alla non-band di Max Pezzali organizzato nel 2012 da Rockit, è quasi una chiusura del cerchio. Nell’ottobre del 2013 è poi arrivato il secondo lavoro “Glamour”, affine al precedente ma nel complesso più vario e ricercato: nella scrittura, nell’approccio poetico ora meno “narrativo” e più legato alla sfera privata, nelle architetture strumentali. Una prova di maturità che, senza rinnegare il passato, strizza l’occhio a un “pop d’autore” di ampio respiro, sempre simpaticamente citazionista ma ora un po’ più ammiccante in senso lato. Nulla dà l’impressione del riempitivo e tutto funziona benissimo, con episodi quali “Come Vera Nabokov”, “Corso Trieste”, “FBYC”, “Storia di un artista”, “Non c’è niente di Twee” e l’emblematica “Storia di un impiegato” – un omaggio “trasversale” a Fabrizio De André – a confermare la bontà dell’ispirazione.
Il nuovo “Aurora” segna però una sterzata piuttosto decisa nel percorso di Niccolò Contessa. Rimane la voce mai granché spinta ma ora più sicura, rimane l’arguzia delle intuizioni testuali (o, almeno, di alcune: “Questo nostro grande amore” è esemplare) e rimangono i riferimenti all’immaginario dei nostri venti/trentenni, ma la musica – solo sintetizzatori e batteria elettronica – si è fatta molto più universalmente accattivante e, se vogliamo, “radiofonica”, con ritmi spesso filo-dance e arrangiamenti che, a dispetto del dichiarato obiettivo di prendere le distanze dal vintage, evidenziano un marcato sapore anni ’80. Un atteggiamento estroverso che crea uno stimolante contrasto con l’apparente (?) malinconia del “messaggio”, sviluppato in undici canzoni – tali a tutti gli effetti – che si muovono sul confine tra convenzionale e alternativo, per quanto certe classificazioni sembrino oggi assai meno logiche di giorni neppure troppo lontani. Finora ho evitato di leggere alcunché del chiacchiericcio che si starà scatenando in Rete sull’argomento “Aurora”, e quindi non so come sia stata accolta la metamorfosi. Del resto, al di là di qualche certezza – apprezzo la prima e le ultime due tracce, ovvero “Questo nostro grande amore”, “Finirà” e “Sparire”, non mi entusiasmo per “Baby soldato” e “Il posto più freddo”, detesto (cordialmente) “Non finirà” – non ho ancora capito come l’abbia accolta io. Per fortuna l’epoca in cui i pareri critici dovevano per forza essere conclusivi è terminato: chiunque può ascoltare “Aurora” senza doverlo acquistare e quindi, una tantum, posso anche infischiarmene e sospendere il giudizio. Ma che non ne sia stato folgorato e che difficilmente lo sarò in futuro è, credo, abbastanza palese.