“La Torre di Babele” è stata varata lo scorso 2 luglio: sei mesi precisi di vita, quindi, che grazie al calendario favorevole si sono tradotti in ventisette appuntamenti settimanali, compreso questo. Se fosse iniziata a gennaio, potrei ragionevolmente affermare di aver offerto un quadro certo non completo, ma comunque ampio, delle migliori uscite discografiche del 2013 nell’ambito della musica italiana cosiddetta emergente, o comunque meno visibile di quanto meriterebbe. All’appello mancano invece sei mesi, e allora cosa fare? Semplice: segnalare, seppure in breve, sei album che avrebbero trovato posto in questa rubrica se fosse stata lanciata martedì 1 gennaio 2013. Album belli, curiosi, interessanti… insomma, meritevoli di attenzione anche con il senno di poi e anche nel 2014. Auguri a tutti.
Blue Willa – Blue Willa
Per un bel po’ di anni e qualche disco si sono chiamati Baby Blue, ma per il nuovo lavoro prodotto dall’americana Carla Bozulich hanno cambiato la sigla sociale. Per il quartetto fiorentino che ha come frontwoman Serena Altavilla, un secondo inizio segnato da un album di notevole incisività, all’insegna di un art-rock tagliente e all’occorrenza feroce che rifiuta la classica forma-canzone a favore di una sintesi atipica e coraggiosa. Approccio anni ‘90, echi di no wave, suggestioni vagamente psichedeliche, atmosfere per lo più cupe, occasionali sprazzi melodici: un sound al 100% internazionale, non solo per via dei testi in inglese.
Simona Gretchen – Post-Krieg
La giovane faentina che nel 2009 aveva destato fortissime impressioni con la canzone d’autore “deviata” dell’esordio “Gretchen pensa troppo forte” è ritornata con un secondo disco che, come annunciato contemporaneamente alla pubblicazione, chiude in via definitiva il progetto. Aspro e saturo, “Post-Krieg” inchioda con otto brani imbevuti di catartica inquietudine, tutti volutamente in Do minore (la tonalità di tanti requiem): brani rock energici e rumorosi, magnetici e conturbanti, fantasiosi a dispetto della monoliticità, intriganti con i loro testi (in italiano) colti e ricchi di immagini evocative benché ermetiche. Assieme, un mantra e un esorcismo.
Fast Animals And Slow Kids – Hybris
“Cavalli”, il debutto di due anni fa sponsorizzato da Appino degli Zen Circus, aveva già illustrato eloquentemente la situazione, ma con questa seconda prova – e soprattutto con i formidabili, travolgenti concerti che l’hanno seguita – il quartetto perugino ha messo in evidenza un’ulteriore maturazione. Nessun dubbio che i ragazzi meritino ormai un posto d’onore nel gotha dell’ampio giro di gruppi che si muovono fra emocore e rock alternativo di scuola americana, dotando il sound di testi in italiano non solari ma suggestivi e impreziosendolo con soluzioni più estrose e poco prevedibili.
Universal Daughters – Why Hast Thou Forsaken Me?
Non è da tutti riuscire a coinvolgere cantanti internazionali che hanno più o meno fatto la storia – da Chris Robinson a Gavin Friday, da Steve Wynn a Jarvis Cocker, da Alan Vega e Stan Ridgway, da Mick Collins a Mark Arm – per un disco composto solo di (spesso oscure) cover. Marco Fasolo, titolare del progetto Jennifer Gentle, l’ha fatto, tirando fuori dal cilindro un album dove gospel, soul, country, pop “alto” e assortite radici a stelle e strisce si incontrano in fantasie psycho-folk stralunate e spettrali ma di grande efficacia. Un ennesimo attestato del talento vivace e ben poco convenzionale dell’artista padovano.
Le Maschere di Clara – L’alveare
Non è soltanto il nome “strano” a par pensare a Le Maschere di Clara come interpreti delle ormai classiche tradizioni del rock progressivo italiano degli anni ‘70. Seppure in chiave più moderna, il terzetto veronese vanta infatti un saldo legame ispìrativo con indole e suoni di quell’epoca, e amalgama prog, hard e psichedelia in una formula caratterizzata anche da testi impegnati: non “canzonette” ma composizioni che puntano ben più in alto e che, nonostante la complessità e la ricercatezza delle trame, non eccedono in prolissità e ridondanze. Meglio dell’esordio “Anamorfosi” del 2011 e, ciliegina sulla torta dell’operazione “di culto”, diffusione in download e vinile ma non in CD.
C + C = Maxigross – Ruvain
Il Laurel Canyon italiano è nell’area collinare/montana fra Verona e Trento, e il ruolo di “nostri Fleet Foxes” spetta indubbiamente a questa bizzarra compagine giunta al primo album dopo un lungo tirocinio che già due anni fa si era concretizzato nell’EP “Singar”. Pop-folk ruspante e un po’ eccentrico, ma non per questo meno godibile, che fra giochi di voci e piccoli incantesimi elettroacustici certifica della verve di un gruppo che della filosofia hippie ha di sicuro assimilato e interpretato alcune delle peculiarità più apprezzabili. Bucolici ma non bovari, freak ma non fuori di tasta, naïf ma non primitivi.