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“Alla fiera dell’est”: l’album-cardine di Angelo Branduardi ha quarant’anni

Nel dicembre del 1976 vide la luce il disco che impartì una decisiva sterzata alla carriera di Angelo Branduardi. Una rievocazione di quei giorni ci sta proprio tutta.
A cura di Federico Guglielmi
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Angelo Branduardi (LaPresse Torino/Archivio storico)
Angelo Branduardi (LaPresse Torino/Archivio storico)
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"Branduardi è un favolista moderno che guarda con affetto e passione al passato, in particolare ai trovatori di corte francesi e alla musica europea prerinascimentale. ‘Alla fiera dell’est' propone il cantautore che conosciamo: perfezionistico, poetico, sussurrato nei timbri vocali, cesellatore accurato, violinista o chitarrista secondo le occasioni. Il disco non è immediato, e richiede tempo per essere assimilato e apprezzato. Qualcuno gli preferirà di sicuro ‘La luna', che vantava probabilmente qualche linea melodica più penetrante". No, non sono io: nel 1976 avevo sedici anni e ancora (per poco) non scrivevo di musica. Le righe qui riportate sono tratte dalla recensione di Enzo Caffarelli per “Ciao 2001”, il settimanale che al tempo orientava più di ogni altra rivista i gusti del pubblico rock e pop; il numero era il 52 del 31 dicembre di quattro decenni fa, uscito quando “Alla fiera dell’est” era appena giunto nei negozi. A breve, l’album avrebbe avviato il suo cammino trionfale: le classifiche più autorevoli, quelle di “Musica & Dischi”, riportano che sarebbe rimasto fra i 25 LP più venduti del 1977 per trentasei settimane (ventitré delle quali nei Top 10, ben diciotto nei primi cinque, cinque al secondo posto dietro l’irraggiungibile Lucio Battisti di “Io tu noi tutti”), risultando quinto nella graduatoria dei più acquistati nella Penisola in quei dodici mesi. Avrebbe poi vinto il Premio della Critica Discografica Italiana e nel 1978 ne sarebbero state approntate le versioni francese (“A la foire de l’est”) e inglese (“Highdown Fair”), grazie alle quali il menestrello lombardo naturalizzato genovese avrebbe acquisito lo status di star internazionale.

Si deve quindi pensare che Caffarelli, affermando “Il disco non è immediato, e richiede tempo per essere assimilato e apprezzato”, avesse preso lucciole per lanterne? No o almeno non del tutto, perché a fronte di cinque brani di facile appeal quali la title track (molto fortunata come singolo: venti settimane nei Top 25, con il picco al quarto gradino), “Il vecchio e la farfalla”, “La serie dei numeri”, “Il dono del cervo” e “Sotto il tiglio”, la scaletta ne offre altri cinque pacati, avvolgenti e “impegnativi” quali “La favola degli aironi”, “Canzone per Sarah”, “Il funerale”, “L’uomo e la nuvola” e “Canzone del rimpianto”. Il punto, al di là del fatto che gli episodi accattivanti sono davvero accattivanti (a cominciare dalla stessa “Alla fiera dell’est” e da “La serie dei numeri”, che sarebbe stata un altro azzeccato 45 giri), è che Angelo Branduardi ottenne un clamoroso successo anche per il suo (pro)porsi come personaggio atipico, come figura diversa da quelle che al tempo sedevano nel pantheon del pop nazionale. Piacevano l’aria riservata e smarrita, la folta capigliatura, la delicatezza contrapposta alla grinta espressa quando sul palco aggrediva il suo violino (lo vidi svariate volte, nei giorni prima e dopo l’exploit, ed era tanto spettacolare quanto carismatico), i testi fantasiosi e onirici firmati dalla moglie Luisa Zappa, la grande opera di recupero e adattamento di arie e trame folk “antiche”. Fu un fulmine a ciel sereno che conquistò la platea “generica” e parecchi appassionati di suoni più ricercati, incuranti dei detrattori – immancabili, quando qualcuno osa emergere – per i quali l’artista era solo un furbo riciclatore di materiali storici. Tesi, va ammesso, non priva di fondatezza, dato che i dischi di Branduardi sono colmi di evidenti citazioni, ma che male c’era ad attingere a piene mani in un repertorio preesistente per rielaborarlo in chiave popular, per di più con notevole qualità musicale? La colpa, al limite, era non dichiarare apertamente la portata del saccheggio, glissando sulla crucialità delle fonti e lasciando dunque intendere che la formula vincente fosse interamente farina del sacco di chi ne sfruttava il potenziale commerciale.

Per la massa, in quel 1977 che lo rese celebre, il da poco ventisettenne Branduardi era un esordiente, ma in realtà il Nostro aveva alle spalle due 33 giri marchiati dalla RCA: il pregevole esordio omonimo dal respiro vagamente progressive, prodotto nel 1974 da Paul Buckmaster, e l’eccellente “La luna” del 1975, in linea con quella che sarebbe divenuta la sua formula più classica. Nonostante la buona risposta della critica e una pur timidissima apparizione in classifica (un n.24 per una settimana), l’etichetta era però disinteressata a proseguire il rapporto: in quel periodo, così si riteneva, la canzone non doveva prescindere dalla sfera sociopolitica o dall’ermetismo, e pertanto le filastrocche – un termine da prendere, naturalmente, nella sua accezione positiva – del lungocrinito cantautore non potevano funzionare. Angelo e il suo manager David Zard – che aveva finanziato le session di incisione e il brillante lavoro dell’arrangiatore Maurizio Fabrizio – la vedevano però in tutt’altra maniera e, dopo un tot di porte sbattute in faccia, approdarono alla Polydor. A quanto pare, l’illuminato A&R che volle siglare il contratto pensava che il disco potesse vendere mille copie oppure un milione, e decise di rischiare. Tutto fu studiato con cura, compresa l’elegante e lussuosa confezione che conferiva al LP un aspetto prezioso, e l’azzardo si rivelò vincente: non solo in relazione ad “Alla fiera dell’est”, ma anche per quanto concerne il prosieguo di carriera con titoli quali “La pulce d’acqua”, “Cogli la prima mela”, il triplo dal vivo “Concerto”, “Angelo Branduardi”, eccetera, eccetera, eccetera. Legittimo credere che alla RCA si mangiarono per un bel pezzo i gomiti.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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