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Alan Sorrenti: quarant’anni fa la metamorfosi prima di “Figli delle stelle”

Nell’autunno del 1976, con il quarto album, Alan Sorrenti impartiva una brusca sterzata alla sua carriera, costruendo una base essenziale per gli sviluppi futuri. Rievochiamo quei giorni.
A cura di Federico Guglielmi
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La copertina di "Sienteme, It’s Time To Land" di Alan Sorrenti
La copertina di "Sienteme, It’s Time To Land" di Alan Sorrenti
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Nei primi anni ‘70, quando si affacciò alla ribalta, quella di Alan Sorrenti era una figura davvero atipica per la scena nazionale; sia per l’immagine misticheggiante, che suggeriva l’idea di un eccentrico asceta-stregone, sia per la proposta sonora, inserita superficialmente nel calderone progressive ma in realtà legata in modo assai più stretto a psichedelia e sperimentazione. Eppure, contrariamente a quanto sarebbe lecito pensare, il seguito di culto dell’artista napoletano non era poi così ristretto: i suoi lavori erano marchiati da un’etichetta prestigiosa come la Harvest, addetti ai lavori e riviste specializzate magari non lo capivano in toto ma ne lodavano le coraggiose uscite, il pubblico – qui la vera sorpresa – non gli negava il suo affezionato appoggio. Le classifiche di vendita più autorevoli, quelle di “Musica & Dischi”, sono inequivocabili: “Aria”, l’esordio datato 1972 che contiene la meravigliosa (nessuna enfasi: non esiste aggettivo più corretto) “Vorrei incontrarti”, oscillò fra il 25° e il 14° posto addirittura per ventuno settimane; “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto”, la più ostica seconda prova dell’anno seguente, stazionò fra gli stessi piazzamenti per sette settimane; “Alan Sorrenti”, il più ammiccante terzo atto del 1974, andò ancora peggio, ma rimase comunque nei “Top” per cinque settimane, benché solo fra il 25° e il 20° gradino. Però, all’epoca, il quadro era ben diverso dall’attuale, e i (sacri) vinili andavano via come il pane. Può sembrare una bizzarria, semmai, come l’ultimo LP del tris, il meno anticommerciale anche grazie alla presenza in scaletta di un singolo persuasivo quale “Dicitencello vuje” (cover di un classico partenopeo di oltre quarant’anni prima), sia stato il meno acquistato, ma la spiegazione forse c’è: all’inizio, Sorrenti era una sorta di guru per gli appassionati dai gusti alternativi, quelli che al primo segnale di sputtanamento – sì, allora regnava il tranchant: se non eri amico, potevi solo essere nemico – lo abbandonarono, arrivando a schifarlo fino all’abiura.

Quattro decenni esatti fa, Sorrenti chiudeva il suo poker griffato Harvest con “Sienteme, It’s Time To Land”, che già dal look ripulito ed elegante messo in mostra sulla luminosa copertina rivelava un mutamento ancor più netto. Cos’era accaduto? La risposta, raccolta nel 2012 direttamente dal Nostro, è più “filosofica” di quella alla quale chiunque pensò – nel caso non si sia capito: “vuole fare i soldi” – in quell’autunno del 1976. "Uno dei compiti dell’artista è interpretare e spesso anticipare i tempi, ma ciò non può avvenire razionalmente. Nella prima fase dei ’70, il mio cuore rivoluzionario mi spinse ad abbracciare la voglia di cambiamento che era nell’aria e che si infiltrò in tutte le tracce del mio esordio. Bisognava volare perché davanti a noi apparivano nuovi orizzonti puliti e dentro di noi si destava la voglia di scoprire la nostra spiritualità latente. Credo che fosse anche la forza della giovinezza che si è sempre manifestata in modi diversi in ogni generazione. La purezza di quella rivoluzione umana fu poi gradualmente manipolata dalla razionalità politica, quella che non si cura della felicità della gente, e cominciò a tingersi di grigio. La mia musica vedeva invece luce e colori, e voleva trasmettere gioia… desideravo fortemente che tutti, non solo i cultori di musica ricercata, provassero gioia ascoltando la mia: fu un processo naturale di realizzazione, ma i miei desideri non potevano concretizzarsi in Italia". Di qui, la decisione di incidere l’album oltreoceano, in California (al Wally Haider di San Francisco), e con musicisti americani; sola eccezione, il 45 giri “Sienteme”, registrato a Roma anche con l’ausilio di due vecchi maestri del progressive nazionale, oltretutto concittadini di Sorrenti: Corrado Rustici, ex Cervello e Nova, e Gianni Leone, ex Balletto di Bronzo.

Assieme ad “Alba”, ballata in italiano che apre la scaletta, il singolo è l’unico brano del disco a non essere cantato in inglese. È in napoletano, come a voler rimarcare le radici, ma sotto il profilo stilistico si inserisce alla perfezione in un programma di nove tracce a base di ritmiche “trattate” che strizzano l’occhio dove più e dove meno alla dance e di trame sofisticate che pur non rinunciando a qualche effetto spiazzante mirano comunque a risultare subito accattivanti. Obiettivo centrato? Tutt’altro, giacché “Sienteme, It’s Time To Land” (così come “Sienteme”) non entrò nei “Top 25”, ma la semina avrebbe a breve dato i suoi frutti. "È stato con la seconda fase", raccontò ancora Alan, "che la mia musica ha – credo – anticipato i tempi: i giorni di ‘Star Wars', il desiderio di immaginazione e di vivere con più ritmo e leggerezza, un’epoca di conseguenza anche più consumistica". Complice il ritorno ai testi in italiano, l’album dell’anno dopo – “Figli delle stelle”: sempre nelle parole del suo artefice, "la sintesi del mio viaggio cosmico in confezione tascabile e il messaggio per le generazioni future" – volò fino in cima alla classifica, e lo stesso fece il singolo omonimo, uno dei pezzi in assoluto più conosciuti del pop tricolore dei ‘70. Dei 33 giri storici di Sorrenti, quelli fino al cambio di decennio (il lotto comprende pure “L.A. & N.Y.” del 1979, trainato dalla melensa “Tu sei l’unica donna per me”, e “Di notte” del 1980, con l’ugualmente sdolcinata “Non so che darei”), “Sienteme, It’s Time To Land” è insomma il solo a non aver ottenuto riscontri commerciali rilevanti. Alla luce di quello che ha innescato, e qualunque sia il giudizio sullo spessore artistico dei risultati, non si può però negare che come “flop” sia stato, ebbene sì, trionfale.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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