C‘è una band che da un‘abbondante quindicina d‘anni insegue il suo personale sogno, forte non solo di un entusiasmo, una costanza e un – massì! – coraggio davvero degni di encomio. Finora hanno raccolto consensi, soddisfazioni e premi, hanno pubblicato sei album e si sono esibiti centinaia di volte in tutta la Penisola, ma ancora non hanno compiuto il decisivo salto di qualità (o, meglio, di quantità) che finalmente li libererebbe dall‘etichetta di emergenti. Il problema non è neppure che gli …A Toys Orchestra facciano “solo” musica al meglio delle loro possibilità. Oltre a comporre, interpretare e incidere ottime canzoni, infatti, si preoccupano di tutti quegli accessori che, nel music-business contemporaneo, hanno un peso decisivo: sono seguiti addirittura da due etichette di sostanza (Urtovox e Alabianca), hanno distribuzione major (Warner), dedicano grande cura a servizi fotografici e video. E che dire del fatto che, per ridurre quanto più possibile le difficoltà logistiche, hanno da tempo lasciato la Campania che ha dato loro i natali per trasferirsi a Bologna? Che per registrare il nuovo disco sono andati a Berlino affidandosi a Jeremy Glover? Ripercorrendo tutto il cammino del gruppo non riesco a trovare un vero errore, e l‘unica sbavatura che mi viene in mente è il vezzo dei tre puntini all‘inizio del nome, che ho detestato fin dal giorno in cui ho capito che non erano un refuso. Un‘idiosincrasia personale, comunque, perché se oggi gli …A Toys Orchestra non sono popolari come i Negramaro (qui nel cosiddetto Belpaese) o come, boh, i dEUS (nel resto del mondo), dubito fortemente che la colpa sia dei puntini. E allora?
Io una teoria ce l‘ho e la (ri)espongo, pur sapendo bene che i ragazzi non ne saranno molto felici. All‘interno dei nostri confini, l‘ostacolo principale è il rifiuto di adottare testi in italiano a favore di un inglese che da noi – purtroppo – chiude un‘infinità di porte. Per quanto riguarda l‘estero, invece, ci sarebbero da superare non solo i pregiudizi nei confronti di noi provinciali dell‘Impero Rock e le mille complicazioni di carattere pratico, ma anche il fatto che, forse, il quintetto non è abbastanza attrezzato per sostenere il confronto con la foltissima e agguerritissima concorrenza planetaria. Non per carenze di bravura o determinazione, ma perché la sua proposta si muove in un settore inflazionato, in cui i talenti locali sono per forza di cose avvantaggiati e, per via dei summenzionati preconcetti, non lasciano molto spazio agli stranieri. Interpellato sullo spinoso argomento, il frontman Enzo Moretto ha dimostrato di avere una visione equilibrata: “Se quella del mercato internazionale è per noi un‘evidente ambizione, non per questo è un‘ossessione. Già l‘essere riusciti a realizzare quanto abbiamo realizzato sul nostro territorio è di per sé una rara eccezione, quantomeno per tipologia e longevità. Questo ci porta a voler tentare in modo naturale di salire uno scalino in più. Tra il lascia e il raddoppia, sceglieremmo sempre il secondo. Abbiamo i piedi ben saldi al suolo, non fantastichiamo mica di esibirci a Wembley; piuttosto, cerchiamo di fare un lavoro graduale, di piccole conquiste proporzionali al contesto che man mano viviamo. Quel che più ci interessa è provarci, senza la smania del riuscirci a ogni costo e senza voli pindarici. Non provarci affatto, però… beh, quello sarebbe bestiale e metterebbe in ridicolo quanto stiamo facendo da anni. Non saremmo credibili neppure con noi stessi”. E persino più categorica è stata la risposta del cantante, chitarrista, tastierista e songwriter sull‘eventuale uso, magari non del tutto convinto, di testi nella lingua che fu di Dante: “No, non ci abbiamo pensato nemmeno per un secondo. E se un giorno dovesse succedere di cantare in italiano, cosa che ritengo a dir poco improbabile, non sarebbe certo per un qualche tipo di forzatura”.
Intanto, dopo essere già da qualche giorno ascoltabile in Rete (ad esempio, sul canale YouTube della band), “Butterfly Effect” è giunto nei negozi con la sua policroma copertina ispirata alle celeberrime macchie di Rorschach e con le sue undici canzoni rock screziate di elettronica dove convivono trame ricercate, melodie accattivanti ed energia sia fisica, sia emotiva. Estremamente varia, la scaletta mette però in luce una vena pop più accentuata del solito, nella quale – eloquenti, in tal senso, episodi come “Always I‘m Wrong” o “Mirroball” – si potrebbe vedere una strizzata d‘occhio al mercato di massa. “Assolutamente no”, è la convinta replica di Moretto. “Non credo affatto di piegarmi a qualche logica commerciale. Con quale fondamento, poi? Esiste davvero una formula atta ad abbattere i famosi pregiudizi di cui sopra? Tutte queste sovrastrutture di pensiero sono lontane anni luce dalle motivazioni reali con cui il suono di un nostro disco si modella, è tutto molto elementare: mi piace? Ok, lo faccio. Non mi piace? Non lo faccio. Stop”. Provo allora ad azzardare che, fra quello che gli piace, devono esserci per forza certi anni ‘80, mentre pezzi solenni e crepuscolari come “My Heroes Are All Dead” o “Wake Me Up” – per inciso: due dei più belli e intensi – paiono rifarsi sfacciatamente agli Arcade Fire. “Non ci crederai”, afferma Enzo, “ma sugli Ottanta non sono granché ferrato: new wave, new romantic e synth-pop lo conosco solo a grandi linee. Per quanto concerne gli Arcade Fire, non nego che possano averci in qualche modo ispirati, ma da qui a essere ‘sfacciati’ ce ne passa. Ricordo che quando uscì ‘Nevermind’ dei Nirvana anche Melvins e Sonic Touth, che di Cobain e compagni erano padri ispiratori, si lasciarono ammaliare, ma non li ho mai trovati sfacciati per questo”. Forse non è il caso di indagare oltre, meglio stare alla finestra e attendere gli sviluppi di questa splendida storia di, per citare il comunicato stampa, “sogni, desideri, passione e musica”. Indipendentemente da ciò che accadrà, “Butterfly Effect” ne sarà stato l‘ennesimo riuscitissimo e godibilissimo capitolo.