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4 anni senza Amy Winehouse, tutta rabbia che non passa

Il 23 luglio 2011 Amy Winehouse muore di una morte annunciata. Quattro anni dopo, la sola cosa che persiste è la mia incazzatura, convinto che la sua miglior versione unplugged di “Valerie” sarebbe stata quella ancora da fare.
A cura di Andrea Parrella
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Buona parte dei video che circolano sul web di Amy Winehouse, si intende quelli delle esibizioni dal vivo, sono divisibili in due macrosezioni: quelli in cui lei è troppo fuori di sé, al punto da risultare imbarazzante, perché a stento sta in piedi e quelli in cui è parzialmente su di giri, al punto giusto da riuscire a mantenere il controllo e, di conseguenza, dare prova plastica della meraviglia che era quando stava su un palco, un divano, attorniata da musicisti. Non si troverà mai una maniera completamente esaustiva, o esempi del tutto convincenti, per raccontare quella legge secondo cui il talento di un grande artista vada necessariamente commisurato alla quantità di follia dell'artista stesso. E se i predecessori illustri annoverati nella storia della musica (Hendricks, Joplin, Morrison) non bastavano a rendere chiaro questo concetto ineludibile alle giovani generazioni, Amy Winehouse si è prestata diligentemente ad accogliere quel ruolo per il quale sembrava essere stata scritturata. Ha allungato la tradizione, morendo puntualmente di una morte annunciata.

Hanno realizzato un documentario su Amy Winehouse, disconosciuto dalla famiglia, da suo padre. Padre che ha quindi deciso di realizzare un altro documentario su Amy Winehouse, quello ufficiale che smentisce quello non ufficiale, seguendo la tesi per la quale ciò che diceva il primo inguaiava troppo la famiglia e la figura del padre, che quindi ha deciso di dire a modo suo come stessero le cose. Cose che, comunque siano andate, non avrebbero tolto dal viso di Amy Winehouse un grande sorriso, per tutto il chiacchiericcio che da anni si spende in relazione alla sua vita. D'altronde lei le prassi le rispettava e le accettava solo per trenta secondi, prima di raggirarle ridendone. Come fa alla fine di questo concerto, quando annuncia l'ultima canzone (che non è mai l'ultima), segue il mugugno del pubblico che annuncia la richiesta di un bis e lei che li stoppa subito chiarendo: "Che tanto non è mai veramente l'ultima canzone".

Quattro anni non sono tanti, non sono pochi, sono semplicemente quattro anni senza, cosa che irrita ancora di più al solito evocare il pensiero di quello che "avrebbe potuto fare" in tutto questo tempo. Parliamoci chiaro, con la morte abbiamo questo strano rapporto, sempre: tendiamo il più delle volte a credere che chi se ne sia andato le cose migliori le avrebbe fatte dopo la dipartita. E' un modo come un altro per sublimare l'affetto che si provava nei confronti della persona, incorniciare il peso dell'assenza che proviamo. Per Amy Winehouse fingeremo di non nasconderci, per un giorno, dietro luttuose frasi fatte. Per farci bastare la grandezza di un artista scomparso è necessario evitare i viaggi mentali e rimanere attaccati a ciò che si è visto e sentito. Per tutto quello che aveva fatto prima di morire, Amy Winehouse faceva letteralmente spavento, tanta la stoffa che credo avesse. Tutto qua. Però dopo quattro anni, più che dispiaciuto resto profondamente infastidito dalla sua morte, perché continuo a pensare, con ferma convinzione, che la migliore versione live di "Valerie" sarebbe stata quella ancora da fare. Questo video, eccezionale, consola un po', lecca le ferite e lenisce il bruciore, ma non allevia l'incazzatura.

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