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Misère de la Philosophie: psichedelicamente vostri

A dispetto di un logo che richiama alla mente grigiori industriali, il quintetto toscano è uno dei gruppi più colorati – benché le tinte tendano al livido – del nostro rock emergente. Lo prova, senza possibilità di smentita, il suo esordio discografico.
A cura di Federico Guglielmi
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Non scriverò di aver visto “il futuro del rock (italiano)”, se non altro perché i ragazzi del gruppo qui presentato cercano e trovano ispirazione alle loro spalle, ma di aver scoperto davvero un bel disco senza dubbio sì. Il CD si intitola “Ka-Meh” e sarà commercializzato martedì 28 gennaio dalla Garage/Goodfellas, ma essendo già ascoltabile integralmente in streaming… perché aspettare? Comincio allora dalle basi informando che l’ensemble che ne è titolare, dal nome forse un po’ fuorviante, si chiama Misère de la Philosophie, si è costituito nel 2010 in Toscana (Piombino, provincia di Livorno) ed è a tutti gli effetti esordiente: inusuale, alla luce di come la frenesia di arrivare da qualche parte (che, poi, è quasi sempre “da nessuna parte”) e i distorti meccanismi del cosiddetto mercato spingano la maggioranza dei sedicenti artisti a pubblicare qualcosa prima di aver definito a dovere il proprio progetto. Negli abbondanti tre anni di tirocinio, i cinque musicisti hanno invece lavorato di sicuro molto e con lucidità, impegnandosi a perfezionare le intuizioni sulle quali hanno edificato la loro formula stilistica senza peraltro soffocarne l’urgenza comunicativa. I dieci brani per quarantotto minuti dell’album dimostrano come tempo e dedizione non siano stati spesi invano. Anzi.

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Forti di un organico dove al basso di Tommaso Redolfi Riva, alla batteria di Andrea Muccetti e alla chitarra di Alessandro Dinetti si affiancano il corposo organo di Luca Pesare – che firma anche la produzione artistica – e la voce magnetica di Sebastiano Taccola, che a tratti fa pensare a un Cristiano Godano più acerbo e meno enfatico, i Misère de la Philosophie risultano addirittura personali: non in termini assoluti, ovvio, ma nel quadro del rock tricolore dei giorni nostri, e non solo, mancano termini di paragone attendibili. La band, infatti, pianta le sue radici in una psichedelia dove i Sixties sono sullo sfondo e dove spiccano riferimenti – esplicitamente ammessi dai protagonisti – agli anni ‘80 di Spacemen 3 e Loop (talvolta pure Jesus And Mary Chain, però) e ad esperienze ben più recenti quali Black Angels e Black Rebel Motorcycle Club. Un sound dalle trame ipnotiche, avvolto in atmosfere cupe ma non troppo opprimenti, che alla foga punk preferisce un’ossessività meno incalzante e che non lesina in soluzioni torbidamente avvolgenti ed evocative: dalle tastiere solenni ma prive di ridondanze alle chitarre ora ruvide e sinistre e ora distese in riverberi per lo più graffianti ma all’occorrenza limpidi, “Ka-Meh” si esprime con canzoni calde e appassionate benché attraversate da sfumature glaciali. Canzoni notturne rese ancor più fascinose dai suggestivi testi in italiano scritti dal frontman, ricchi di immagini dove a dominare è il senso di inquietudine: nulla di cui stupirsi, per gente che menziona come altri maestri Velvet Underground e Nick Cave, che indica come riferimenti culturali Karl Marx, Bertolt Brecht e Walter Benjamin e che non ha paura di sottolineare il proprio approccio concettuale dichiarandosi “contro i profeti della decadenza, contro i profeti del progresso e contro i miti da questi costruiti, nella convinzione che solo il ricordo di un nostro mito potrà accendere il presente e, tramite la sua comprensione, aiutarci a cambiarlo”. Un manifesto di intenti che, tanto per confondere ancor più le idee, vanta un nemmeno tanto vago retrogusto prog, allo stesso modo in cui in alcuni passaggi si avvertono echi del beat nazionale più cattivo, quello rimasto per forza di cose sommerso.

Una sintesi, insomma, non solo atipica ma anche convincente, dove energia rock e melodie persuasive si intrecciano dando vita ad affreschi di – un ossimoro che non è tale, provare per credere – onirica tensione. Non sarà per tutti, “Ka-Meh”, ma vale la pena di prestargli orecchio.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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