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Il rock italiano e la difficile arte di arrangiarsi

Formazioni ridotte all‘osso, progetti paralleli e solistici, carte rimescolate di continuo. A quanto sembra, in Italia sono solo i nomi grandi e grandissimi a potersi permettere carriere “normali”.
A cura di Federico Guglielmi
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Non sono mica impazzito, eh. Prima di decidermi a scrivere questo pezzo ho condotto una mini indagine fra non addetti ai lavori, e il responso è stato inequivocabile: i semplici appassionati di musica, cioè quelli che ascoltano dischi e frequentano concerti senza però suonare, avere un’etichetta, occuparsi di radio e giornalismo, organizzare serate e/o rappresentare in qualsiasi modo artisti o sedicenti tali, certe cose non se le immaginano, nemmeno un po’. D’accordo che, non considerando chi all’interno del circuito rock italiano underground fa (o vorrebbe fare) qualcosa, di gente non ne rimane molta, e dunque a parecchi di coloro che mi stanno ora leggendo la mia “rivelazione” parrà l'ennesima scoperta dell’acqua calda, ma vale forse ugualmente la pena di affrontare il discorso. A cosa mi riferisco? Al fatto che i problemi patiti da una larga parte dei musicisti indipendenti/alternativi (che poi sono in realtà riconducibili a uno solo: pochi soldi) stanno avendo ripercussioni sull'approccio creativo dei musicisti stessi, sul modo di porsi nei confronti della loro attività anche quando si tratta di comporre ed esibirsi. Non è certo una novità e non è scontato che ciò sia negativo (anzi, spesso è l'esatto contrario), ma il fenomeno resta significativo e quindi perché non parlarne?

Allora, vediamo un po'. Mettiamoci nei panni di qualcuno che abbia voglia di varare una (specie di) carriera nella musica seguendo un iter “old style” che non contempli i talent: le prove in cantina, la costruzione del repertorio, i primi concerti a livello locale, qualche canzone diffusa tramite Internet, magari un disco che ottiene recensioni favorevoli. Tutte cose gratificanti, che però comportano quasi solo uscite e ben pochi introiti. E dato che, volendosi impegnare a tempo pieno per rendere la faccenda “seria”, un minimo di soldi servono, si devono fare concerti. Evito di addentrarmi in faccende complesse come la ricerca dei locali disponibili o le difficoltà di concentrare più date in pochi giorni, e mi concentro sulla situazione ottimale: accordo con il club raggiunto, compenso di 500 euro. Ora ci sono, mettiamo, 400 chilometri da percorrere, con un furgone di proprietà o in affitto, e una volta detratte le spese cosa rimane in tasca, se a dividere si è in cinque? Pochissimo. Ok, si investe per un molto ipotetico futuro, ma per quanto lo si potrà fare, e con quanti patemi? La necessità aguzza l'ingegno e in molti hanno trovato la soluzione: organici “minimal”, due o tre elementi, che entrano in una normale auto con tutti gli strumenti e hanno eventualmente bisogno di una sola stanza d’albergo, cosa che non guasta perché un risparmio di 50 euro non è da trascurare. Se qualcuno si chiedeva perché, da anni a questa parte, si vedano così tanti gruppi ridotti all'osso, ora lo sa. Essenzialità figlia dell’attitudine punk? Probabilmente anche sì, ma soprattutto della carenza di denaro che, c’è poco da fare, ostacola la vita delle compagini ampie. Come accade, mutatis mutandis, pure nel jazz e nella classica.

Ci sono così alcune band che decidono di mantenere in ogni caso la formula “less is more” e altre che, se il budget lo consente, hanno già pronto l’ensemble allargato, quello che se si potesse utilizzerebbero sempre: i Gang, per fare un nome, con questo metodo sono andati (e vanno ancora) avanti alla grande, così come – altro esempio più o meno casuale – Il Pan del Diavolo; e un gran numero di solisti, da Federico Fiumani/Diaframma a Le Luci della Centrale Elettrica fino a Dente e Colapesce, sono (o sono stati: dipende dalla natura del disco da promuovere) predisposti indifferentemente a imboccare l’una o l’altra via.

Ci sono poi coloro che, da leader o da membri di peso di formazioni di medio successo, allestiscono progetti in solitudine o con altri per esibirsi nei periodi di pausa delle loro principali (?) fonti di reddito. Tutto lecito, si tratta comunque di lavoro e alla fine a decretare le fortune di qualcosa è sil pubblico, ma la quantità di proposte parallele delle nostre “stelline” mi spinge a nutrire dubbi sulla loro genuinità, specie quando non paiono essere granché illuminate dall’ispirazione. Insomma, le urgenze espressive da liberare sono davvero incontenibili, o tutto si riduce a frigoriferi da riempire e bollette da pagare? Interrogativo pericoloso che non può avere un’unica risposta, ma che ha senso. In un contesto dove l’offerta di dischi, tour e personaggi è di gran lunga superiore alla possibilità di assorbimento del mercato, ogni exploit anche pretestuoso di un musicista “di fama” sottrae infatti attenzione e spazio a semisconosciuti che potrebbero – il condizionale è d’obbligo – avere cose più interessanti e genuine da dire. Questione vecchissima e irrisolvibile, che inevitabilmente ha portato alle considerazioni oziose qui esposte. ”È un mondo difficile”, come declamava una quindicina di anni fa la mezza meteora Tonino Carotone, e c’è senz’altro di peggio che avere imparato l’arte di arrangiarsi.

Credits Foto: Flickr/ArtBrom

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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