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George Michael, Bowie, Prince: nel 2016 è morto il coraggio di cui il rock era capace

Grandi artisti ci hanno lasciato nel 2016. Viene da riflettere sulla loro eredità, la loro ribellione ed il coraggio, ora che la musica è una carriera. Ora che il futuro sembra una “stella oscura”.
A cura di Michele Azzu
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Da sx: Prince, George Michael e David Bowie
Da sx: Prince, George Michael e David Bowie

Una “stella nera”, e “ancora più oscuro”. Se è vero che i grandi artisti riescono a mettere nelle proprie opere il segno dei tempi che stiamo vivendo, il bene e il male della società, è comprensibile che per questo maledetto 2016 due opere rilevanti – gli ultimi dischi di David Bowie e Leonard Cohen, entrambi morti a distanza di pochi giorni dall’uscita dei propri album “Blackstar” e “I want it darker” – siano caratterizzate da due titoli così cupi.

Già, perché all’insegna delle violenze razziste, della rabbia populista, della guerra in Siria e del dramma dei rifugiati, il 2016 è stato un anno oscuro. Reso ancora più triste, appunto, dalla morte di troppi grandi musicisti. David Bowie, si diceva, Leonard Cohen, a soli 57 anni lo scorso aprile è morto Prince, l’ultima vera rockstar degli anni ’80, deceduto a causa di una overdose di antidolorifici. E ora è morto anche il cantante britannico George Michael a soli 53 anni.

Dei giganti che con le loro canzoni, i loro costumi e l’indole ribelle che li ha portati a essere costantemente in conflitto con l’industria discografica, hanno lasciato un segno indelebile nella cultura del XX secolo ispirando intere generazioni di giovani ed artisti. Dei poeti a cui, purtroppo, va ad aggiungersi un elenco sfortunatamente lungo di nomi che meriterebbero ben più di un breve elenco per essere celebrati.

Glenn Frey degli Eagles, la rock band più famosa degli anni ’70, Signe Toly Anderson e Paul Lori Kantner dei Jefferson Airplane, Maurice “Moe” White degli Earth, Wind & Fire e lo storico produttore ed arrangiatore dei Beatles, Sir George Henry Martin. E ancora, Keith Noel Emerson e Greg Stuart Lake degli Emerson, Lake & Palmer, e Phife Dawg, alias Maliz Izaak Taylor, degli A Tribe Called Quest.

È inevitabile che in questi anni sempre più rockstar decidano di lasciarci, per una semplice questione anagrafica. Eppure la dipartita di così tanti miti della musica, a distanza di pochi mesi, serve per fermarci a riflettere su quanto abbiamo perduto. Specialmente alla fine dell’anno. Serve, purtroppo, anche a riflettere su quanto poco degno sia il confronto col panorama della musica oggi: in crisi, fermo, senza la stessa influenza sulla cultura che i nomi sopra potevano vantare.

Già, perché negli anni ’60 quando Cohen debuttò col suo primo album, nei ’70 di “Space Oddity” di Bowie, negli anni ’80 di Prince, nei '90 di George Michael la musica dominava sulla cultura. I ragazzini spendevano tutto in dischi e concerti. I costumi delle band influenzavano la moda. I nuovi generi contaminavano la letteratura, il cinema, la televisione. E i musicisti erano talmente potenti da lanciare manifestazioni che richiamavano milioni di persone: Woodstock e il Live Aid sono solo i primi nomi che tornano alla mente.

A leggere questi nomi, insomma, rimane la somma di un’eredità enorme con cui è incredibilmente difficile confrontarsi oggi. Non solo per le canzoni e i concerti. Pensate a quella volta in cui Prince si scrisse sul volto “schiavo” in aperta guerra contro la propria casa discografica, la potente Warner Brothers, accusata dall’artista di Minneapolis di mettere confini troppo stretti alla sua produzione musicale. Da allora, Prince fu costretto a cambiare il proprio nome d’arte con un simbolo, per smarcarsi da quel contratto troppo stretto. Quella posizione è costata a Prince una fortuna, e parte della propria carriera.

Anche George Michael condusse una sua personale guerra contro l'etichetta Sony, accusata dall'artista di averlo ridotto alla servitù artistica nel suo contratto. La causa legale, poi persa dall'artista, fermò per diversi anni la sua carriera. Quali artisti oggi potrebbero fare una cosa del genere? Taylor Swift, una delle cantanti più influenti di oggi, al massimo si è imposta contro Spotify ma unicamente per una questione di soldi – la cantante ne vuole di più. Non si parla di creazione, di libertà, né di arte, semplicemente perché i musicisti ora sono prima businessman e poi, forse, artisti.

Quando David Bowie divenne Ziggy Stardust, coi capelli rossi, il trucco e la tuta psichedelica su Top of The Pops nel 1972, quella performance di pochi minuti avrebbe influito sulla cultura di una decade. Una cosa simile oggi sarebbe impossibile. “Non sceglierei di fare musica, oggi, perché è diventata una carriera”, spiegava proprio David Bowie in un’intervista alla BBC del 1999, “Io ci ero entrato perché era una cosa ribelle, sovversiva, che poteva cambiare il mondo”.

Quando a soli 20 anni Prince ebbe l’opportunità di aprire un concerto dei Rolling Stones – notoriamente l’incarico più difficile nel business della musica – lo fece indossando delle calze a rete e per due sere di fila ricevette dai fans di Mick Jagger bottiglie, verdure e qualsiasi cosa riuscissero a lanciare sul palco della futura rockstar, allora sconosciuta. Chiunque dopo un episodio del genere si sarebbe sentito finito. Per Prince, invece, quella era solo una sfida di principio.

Quando nel 1994 il cantautore Jeff Buckley incise la sua versione della canzone “Hallelujah” di Leonard Cohen, rendendola una hit e dando fama al poeta all’epoca già sessantenne, quest’ultimo anziché beneficiarne decise di ritirarsi in un monastero buddista e vi rimase cinque anni per lasciarsi alle spalle un’industria che odiava. Mentre il mondo parlava di lui, Cohen adottò il nome dharma di “Jikan”, che significa “silenzio”. "Non penso di poter regger altri 10 o 15 anni di grande esposizione mediatica", disse George Michael poco prima di ritirarsi dalle scene, "È la tragedia di essere famosi, persone che sono semplicemente fuori controllo, perse".

Oggi, inevitabilmente, la musica è meno importante nella vita delle persone, dei giovani, sulla cultura. I musicisti sono spesso imprenditori, e pensano al marketing prima che a cambiare il mondo. Sembra lontanissimo l'anno 2000 in cui George Michael pubblicò la canzone "Shoot the dog" per protesta contro la guerra in Iraq. Difficile vedere i musicisti di oggi dentro i monasteri, a fare barricate contro le etichette, a cambiare un’identità dopo l’altra a cavallo delle epoche, ad esporsi contro i politici. Oggi i big della musica sono a colloquio con Apple per decidere le esclusive, o con Samsung per la promozione.

In una recente intervista di Zane Lowe, conduttore radiofonico di Beats1 (la radio in streaming di Apple Music), Abel Makkonen Tesfaye, uno dei musicisti più influenti del momento con l’acronimo "The Weeknd", ha spiegato che si sta occupando di comprare automobili: “Ferrari, Lamborghini, McLaren”. Questa intervista ha dato tutto il senso della pochezza di cui i più grandi musicisti di oggi sono capaci. È vero, le rockstar non sono certo mai state lontani dalla ricchezza, ma non era mai stata l’inizio e la fine di tutto.

Forse il problema della musica, oggi, non sono neanche le canzoni, l’industria o lo streaming. Sono artisti e persone che ci lavorano. Perché è vero che Taylor Swift non potrà mai scrivere una canzone come "Purple Rain", ma è anche vero che mentre Tesfaye pensa alle Lamborghini e Kanye West disegna scarpe per la Nike, uno come Prince ha devoluto cifre incalcolabili – si parla di decine di milioni di dollari – in beneficenza, e lo ha fatto per decenni rimanendo anonimo.

George Michael ha donato grandi quantità di denaro per le campagne di sensibilizzazione all'Aids. David Bowie ha letteralmente salvato la vita ad artisti come Lou Reed e Iggy Pop, aiutando quest’ultimo psicologicamente e finanziariamente quando era stato dato per finito (Iggy Pop ha rilasciato proprio nel 2016 il disco “Post Pop Depression”, fra i più rilevanti dell’anno). E Leonard Cohen, riporta una recente testimonianza sul New York Times, era una persona che già in età avanzata si preoccupava di assistere gli anziani presenti nel suo monastero.

Il rock and roll, insomma, il simbolo della ribellione che oggi sembra sempre più legato ad un passato mitico, non è mai significato solo sesso, droga e chitarre. Era anche un manifesto politico e umano portato avanti col sacrificio di grandi artisti, che con la propria vita hanno professato il coraggio. Persone autentiche, o che almeno lo sembrano al confronto con i businessman che ci ritroviamo oggi a produrre dischi da classifica che non compra più nessuno.

Non tutto però è perduto. Il 2016 è stato un anno di grande sperimentazione. “Anti” di Rihanna, “Views” di Drake e “Life of Pablo” di Kanye West sono stati lavori molto più concettuali rispetto al passato, meno improntati al consumo di massa. Nel momento in cui i milioni di dischi non si vendono più, gli artisti hanno capito che è ora di tornare a fare musica per davvero. E utilizzando nuovi strumenti: da Fka Twigs a Frank Ocean, da Beyonce ad Alicia Keys sono sempre più gli artisti che quest’anno hanno rilasciato veri e propri film assieme ai loro album.

E poi, l’album più importante dell’anno, il vincitore del prestigioso Mercury Prize è stato “Konnichiwa” del rapper britannico Skepta, un album prodotto totalmente in maniera indipendente, senza etichette, grandi manager e poca promozione. E anche Lady Gaga, col suo album “Joanne” ci ha regalato canzoni intime e bellissime, lontane delle iperproduzioni a cui la stessa artista ci aveva abituato in passato, che hanno messo in pubblico temi come l’abuso sessuale e la depressione.

Nel 2016, per la prima volta nella storia, si è sentito un forte richiamo a temi radicali come l’abuso sessuale nell’industria della musica, e i danni psicologici che oggi vive la maggior parte dei musicisti. Un tema che è emerso in maniera potente solo un anno fa dopo il drammatico documentario “Amy” sulla vita di Amy Winehouse, e a seguito dello studio condotto dall’organizzazione “Help Musicians UK”, secondo cui il 71% dei musicisti e di chi lavora nell’ambiente soffre di crisi di ansia e depressione.

Ci sono stati giovanissimi artisti come Halsey e Troye Sivan che hanno preso posizione in pubblico su depressione, tentazioni suicide e omosessualità. Insomma, se nel 2016 abbiamo pianto la scomparsa di artisti grandissimi, sembra anche essere cambiato il passo nell’industria della musica. Forse la stella di David Bowie non era poi così nera, ma il presagio di un cambiamento necessario per artisti ed industria. Per tornare allo spirito ribelle del rock, al coraggio che Prince, Bowie, George Michael e Leonard Cohen lasciano in eredità.

“Preferisco dare alle persone ciò di cui hanno bisogno anziché ciò che vogliono”, diceva Prince. È la lezione che i nuovi musicisti dovrebbero tenere a mente per il futuro della musica.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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