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Vinicio Capossela: “Siamo vittime della viralità, bisogna lavorare su una nuova lingua”

Vinicio Capossela ha pubblicato il suo undicesimo album “Ballate per uomini e bestie” che racconta le pestilenze moderne, la frattura del rapporto tra l’Uomo e la Natura, la corruzione della lingua, la declinazione moderna della paura come arma di affermazione del Potere, pestilenza che è morale, etica e di linguaggio.
A cura di Francesco Raiola
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Vinicio Capossela (ph Marco Zanella)
Vinicio Capossela (ph Marco Zanella)

Vinicio Capossela è un unicum nel panorama artistico e musicale italiano, cantore di uomini e bestie, artista che racconta la contemporaneità mescolando alto e basso, un pensatore postmoderno, che affonda sì le mani nella terra ma mescolandola con la poesia. È un uomo e un cantante in continuo movimento, che muta perennemente ma senza perdere un'identità che lo ha reso uno dei più amati del Paese, una sorta di pifferaio magico che porta il suo pubblico a esplorare assieme a sé nuovi mondi, dalla Grecia del Rebetiko alle tradizioni di Calitri facendoti sempre scoprire un lato che non avevi visto e rendendo magiche le sue scoperte. Poi, appunto, è un unicum perché ha un pubblico, vero, numeroso, reale e onesto che lo aspetta benché Capossela non ceda nulla alla scorciatoia, al refrain forzatamente orecchiabile.

Il suo ultimo album "Ballate per uomini e bestie" ne è l'ennesimo esempio esempio: un album che racconta le pestilenze moderne, la frattura del rapporto tra l'Uomo e la Natura, la corruzione della lingua, la declinazione moderna della paura come arma di affermazione del Potere, pestilenza che è morale, etica e di linguaggio e che nella contemporaneità può avvalersi di uno strumento di trasmissione come mai visto prima: il web e non a caso uno dei casi simbolo di decadenza è la vicenda di Tiziana Cantone, la ragazza di cui finì online un video che non era pensato per la pubblicazione portando la ragazza al suicidio. Capossela parla dell'oggi, ma lo fa ispirandosi e lasciandosi ispirare da poeti, pensatori, scrittori in questo Decamerone che unisce l'aulico al linguaggio popolare. E proprio l'idea di longua e di racconto è un altro dei capisaldi di questa raccolta che comincia proprio con i disegni delle grotte di Lascaux e che cambia nelle epoche, dalle forme primordiali, passando per i racconti orali, la rivoluzione di Gutenberg fino alla contemporaneità del web.

La peste è una sorta di fil rouge dell’album, una pestilenza morale, etica, di linguaggio. Da dove nasce questa pestilenza e in che modo hai cercato di raccontarla?

In tutte le pestilenze che, innanzitutto, non viene riconosciuto che sia una pestilenza, il medico viene irriso e poi si spargono false credenze, false notizie, non c'è più niente di verificabile, poi si sciolgono tutti i vincoli sociali, i vincoli umani si sgretolano subentra una specie di anarchia e di senso di ‘Si salvi chi può', si mina proprio il senso di comunità e bisogna dare la colpa a qualcuno, quindi si cerca il capro espiatorio e poi c'è chi ci guadagna su. Artaud parlava di ‘meravigliosa peste' perché azzera tutto e a quel punto si può ballare freneticamente sulle ceneri, sulle rovine.

La rete è il mezzo di diffusione moderno?

Le pestilenze sono, naturalmente, metaforiche e c'è un mezzo di trasmissione straordinario che l'uomo non ha mai sperimentato prima: la rete, un mezzo estremamente potente, capillare, che ti permette la circolazione di ogni cosa, e accadono spesso atti osceni in luogo pubblico. Intendiamoci, però, internet non è la peste, è uno straordinario conduttore di qualsiasi cosa.

Che però, pare di capire, porta anche ad azioni dalle conseguenze gravi…

C'è un senso di deresponsabilizzazione collettiva, se qualcuno vede un contenuto sul suo telefonino che chiaramente non è nato perché lui lo vedesse non si sente dalla parte del torto, anzi, probabilmente dalla parte del torto, nella sua percezione, è chi è finito in quel contenuto. Tutto quello che normalmente viene sanzionato come diffamazione, atto osceno in luogo pubblico etc, in questa fase del web non lo è, anzi i contenuti diventano virali, sentite questa parola magnifica? Virale. E nella viralità si possono distruggere le persone, si può influenzare l'opinione pubblica, c'è un lavoro enorme sulla circolazione dei contenuti in questa fase così primitiva, di questa nuova rivoluzione digitale del linguaggio.

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Da dove nasce il bisogno di utilizzare la forma ballata per raccontare questa pestilenza?

La ballata è una forma antica che mi rimanda ai trovatori fino a De Andrè, è un componimento con una metrica che racconta le cose senza particolare sintesi, alcuni brani dell'album seguono le regole della ballata, che ha uno schema metrico definito, altri brani no, ma la vocazione della ballata è quella di mettere al centro il racconto, mettere la musica al servizio del racconto, quindi in questo senso sono senz'altro ballate.

E sono molte le canzoni che raccontano il rapporto contemporaneo tra Uomo e Natura

Ci sono diversi tentativi in queste ballate di superare il limite imposto dalla natura, del confine tra uomo e animale: nell'animale c'è sempre un enigma, una cosa che ha sempre attratto l'uomo, per cui guardare negli occhi una fiera è anche guardare nello specchio, nel pozzo della nostra origine. E poi c'è questa storia di San Francesco che supera questa divisione dialogando con gli animali, come se un linguaggio possa superare le differenze di specie, non solo quelle di razza.

Un altro dei pezzi cardine è "Il povero Cristo", primo singolo, con un video girato a Riace, luogo simbolico in questi ultimi anni.

Questo piccolo film è stato girato da Daniele Ciprì con la partecipazione di una figura straordinaria, Enrique Irazoqui, l'uomo che interpretato nel 1964 il Cristo del "Il Vangelo secondo Matteo" di Pasolini a Matera, che in quegli anni era simbolo di quella civiltà contadina, di quell'Italia umile fuori dalla Storia di cui parla Carlo Levi, destinata a scomparire. La storia di Riace, infatti, si comprende solo se si pensa alla fine di quella civiltà e allo svuotamento e alla morte dei paesi, questa è la premessa per capire il progetto, l'utopia di Riace che è mettere in atto il principio della Buona Novella.

“Antinoi sfioriti, dandy glabri, cadaveri verniciati, vitaioli canuti? Nel gioco universale della danza macabra, siete trascinati, verso luoghi sconosciuti!” dice Baudelaire in Danse Macabre, che è anche titolo di un saggio sulla letteratura horror e splatter di Stephen King. La tua danza macabra è la rappresentazione della paura come esercizio del potere, giusto?

Sulla paura si è sempre fatto un lavoro strumentale al potere e lo si fa particolarmente in questa epoca in cui c'è un lavoro sempre più sofisticato. La paura è paralizzante e nella paralisi è più facile rinunciare ai diritti in nome della sicurezza: c'è una cosa che mi piace particolarmente dell'anarchismo, non è vero che una società anarchica non prevede regole, ma non serve la forza coercitiva per imporle perché sono regole dettate dalla necessità di dover stare insieme, la via della paralisi e della paura conduce all'applicazione forzata di regole che vengono subite, è interessante vedere come le culture popolari abbiano inglobato tutto quello che sta intorno alla morte, il lato del grottesco, del comico, dai gesti più dissacratori a tutto il resto.

Che detto a Napoli…

Napoli, ad esempio, è una città meravigliosa dove non c'è una vera separazione tra i vivi e i morti, invece ora, nella società capitalistica del consumo è l'ultimo tabù, si muore da soli, fuori dalla vista, quando invece la morte è parte della vita e se soltanto la cominciassimo a percepire come tale, forse si sarebbe meno impauriti e quindi anche meno disposti a farsi comandare

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