Tutti i paradossi di Caparezza: “Fare rap a 50 anni è ancora possibile”
"Exuvia", il cambiamento. È partito da qui il processo che ha portato Michele Salvemini, in arte Caparezza, alla produzione del suo nuovo progetto, a quattro anni di distanza dall'episodio fortunato di "Prisoner 709". Ritorna il contatto con la natura, la foresta del cambiamento che avviene attraverso tutte le tracce del disco, per poi essere coronata con la titletrack, ultimo singolo del progetto. Uno sguardo al passato, all'accettazione finalmente avvenuta della figura di Mikimix, ma anche al presente, alla censura e all'impegno politico, che non deve per forza avere un eco mediatico. I paradossi e il rap di Caparezza sono ancora qui, non si sa ancora per quanto, come ha ammesso nell'intervista lo stesso artista.
Dopo il viaggio nella mente con "Prisoner 709", in che modo Caparezza è arrivato alla foresta e a "Exuvia"?
Molto banalmente, nella vita succedono cose. Quindi a un certo punto ho dovuto fare i conti con uno spaesamento che avevo, non solo per quello che accadeva attorno a me. Era qualcosa dovuto anche al mio cambiamento, non è una novità. Mi sono reso conto che questa cosa mi portava in conflitto con me stesso, un sentimento con cui convivo abitualmente. Ho deciso di raccontarlo, senza cercare di ripetere stilemi del passato, di sedermi e di adagiarmi come se nulla fosse accaduto.
"Exuvia" è l'ultima traccia dell'album, quasi a spiegare che il mutamento avviene in tutto il disco e poi lo coroni nell'ultimo brano.
Esattamente, nel senso che tutto il percorso dell'album racconta il processo che sta dietro al cambiamento di fase, che poi avviene nella canzone finale. Un processo per l'insetto che deve uscire da Exuvia e non è facile, deve fare movimenti che non sono semplici. Deve uscire da quel taglio sulla schiena. Con "Exuvia" canto la libertà finale, ma prima di quello c'è un processo relativo a ciò che si è fatto fino a quel momento, che però sfocia nella libertà.
"I'm a fucking walking paradox" canta Tyler, The Creator in Yonkers. In cosa consiste il paradosso della foresta all'interno dell'album, ma anche quello tuo personale, artistico?
Come penso tutti hanno capito, a me non piace stare al centro dell'attenzione. È paradossale questa cosa, soprattutto perché mi porta a esserlo in un periodo, come quello dell'album. Agisco per il bene dell'album, per il bene del lavoro dell'album, ma una volta terminata questa missione, io rientro nel buio, che poi è la luce della vita. Non ho voglia di battibeccare, di dire la mia sempre, non mi ritengo un divulgatore, né mi interessa essere un personaggio pubblico. Sono un sognatore razionale, nel senso che con la materia dell'arte devi essere per forza un sognatore. Ma dall'altro lato sono una persona con i piedi per terra, sono attaccato alla vita reale, non a quella del successo. Questi sono già due paradossi personali, in un percorso disseminato di paradossi.
Sembra che tu abbia risolto anche il paradosso tra il rap e l'età – essendo uno dei pochi rapper che si avvicina ai 50 anni – anche attraverso i suoni della tua musica.
Il paradosso nasce dal fatto che di questa materia te ne innamori in gioventù. Io avevo 13 anni quando ho scoperto l'album "Raising Hell" dei Run Dmc che mi ha cambiato la vita, poi da lì ho cominciato a esplorare il territorio. Questa forma di comunicazione ha il grande vantaggio di essere recepita in gioventù, perché la materia è sì musicale, ma soprattutto è testo. Usare le parole per tirare fuori quello che hai dentro, in un'età come quella adolescenziale, è una sorta di benedizione. Poi ognuno fa quello che vuole. Io sono in un momento in cui sto esplorando l'idea di fare rap alla mia età, non per il rap, ma perché io ho la mia età. Quindi ragiono come la persona che sono, ma non sono in conflitto con nessuno. Sono assolutamente felice, quando chiunque, anche con argomenti diversi dai miei, riesce a realizzare il suo sogno. Io sono la prova vivente, non sono più quello di qualche anno fa.
Partendo dal singolo "Come Pripyat", sembra che in questo episodio ci sia un maggiore sforzo di voler arrivare al pubblico, di voler condividere il messaggio, anche in una città fantasma che adesso non riesce a recepirlo. Secondo te Exuvia si sforza di arrivare a un pubblico più ampio, rispetto al viaggio personale di "Prisoner 709"?
Innanzitutto, in Come Pripyat racconto il mio spaesamento attraverso la città fantasma, una zona che ha subito la tempesta nucleare di Chernobyl. La radioattività, per una persona come me, che leggeva fumetti, racconta la mutazione. Però non penso a un pubblico quando scrivo, questo spaesamento lo racconto come un'esigenza, e poi lo condivido. Questo si aspetta il mio pubblico, e cioè che non lo assecondi. Cerco di fare quello che ho in mente, come la scelta dei featuring di questo disco, anch'essi scelte ricercate: mi è sembrato strano sentir dire "Ma chi sono questi?". Comunque, la mia speranza è che tutti i miei dischi siano recepiti da tutti, ma non perché devo piacere. A me, per esempio, piacciono i dischi che hanno un senso, e mi piacciono i dischi che non mi piacciono perché hanno un senso.
Com'è nata questa pacificazione con il tuo passato, e quanto è stato un trampolino di lancio per la tua carriera futura?
Il mio primo disco da Caparezza si apriva con una canzone che si chiamava "Mea Culpa", in cui facevo il mea culpa artistico dal mio scorso alter-ego. Sono passati 20 anni da quell'episodio, sono sufficientemente adulto per non vederlo come angosciante. Non l'ho assolto, perché semplicemente ne parlo e l'ultima frase del disco lo definisce come un passo falso. A volte, poi, si dice che un traguardo comincia da un passo falso. Non importa se ci sono periodi della tua vita che non ti piacciono, a un certo punto li devi archiviare. Questo vale per una vicenda artistica, ma soprattutto per le tue vicende della vita che non si riesce a scrollarsi di dosso. Nell'ultima canzone di quest'album, dico: "Vado da mea culpa a ego me absolvo", perché in questo percorso nel lasciare l'Exuvia c'è anche la coscienza che appartiene al passato. Credo che in qualche modo quella vicenda sia stata importante, perché per un bel periodo ho cercato di dare il meglio di me proprio per questo motivo.
"Ascolto roba new, è una robina, il vuoto di una hit continua, in confronto Mikimix è Bob Dylan". Come ti poni nei confronti di alcuni artisti, che magari stanno vivendo in questo momento il loro periodo Mikimix, in un mercato discografico che adesso, dopo due singoli, tende a premiare enormemente l'artista?
Quella è una punchline messa lì in maniera goliardica. Non è un j'accuse alla musica di oggi, perché per tutto il tempo in quella canzone mi sono demolito. Semplicemente alla fine del brano mi sono dato una pacca sulla spalla dicendomi: "Ma cosa hai fatto di male?". Questo è il senso di quella punchline. Non sono ipocrita dal mettermi a giudicare cosa fanno gli altri, soprattutto guardando al mio percorso. Io l'ho sempre detto e lo ribadisco: mi piace quando un ragazzo riesce a realizzare il suo sogno, anche quando utilizza un linguaggio diverso dal mio. Ma lo sanno molti di questi ragazzi, quando ho la possibilità di appoggiare l'ascesa di un artista contemporaneo, ci sono. Non c'è niente che mi ponga in contraddizione con quello che gli altri fanno, soprattutto perché è la materia degli altri, io sono concentrato su ciò che faccio io. Sono stato anche accusato di essere democristiano, perché non voglio spendere parole negative sugli altri.
Il modo in cui concepisci la morte, la natura e l'arte sono argomenti che ritornano ciclicamente nella tua musica, basta osservare "Museica" e "Exuvia" e la loro narrazione. Com'è cambiata la concezione per te di questi tre elementi e del modo in cui influiscono nella tua musica?
In realtà, nella collezione di paradossi, stavo ragionando sul concetto di natura fuori dalla retorica. Sono abbastanza d'accordo con la concezione leopardiana di natura matrigna, che magari rivive in me in forma più cinica che matrigna. Secondo me la natura esiste e basta, gli attribuiamo delle doti morali che non ci sono. La natura magari ha un dark side, come la vita, come noi stessi. La caratteristica della natura a cui ho pensato è la noncuranza, basti pensare alla dicotomia predatore-preda, ai parassiti che distruggono i germogli. Esiste anche una zona d'ombra. Chi vuole tutelare la natura, e io sono abbastanza tra questi, fa un atto tendenzialmente contro natura: essere migliore dell'esistere semplicemente e proseguire la propria specie. Tutto questo all'interno di una selva, in cui ragiono sul luogo in cui mi sto addentrando.
Parlavi in conferenza dei problemi avuti con "Vieni a ballare in Puglia", di come tutti i paradossi e tutte queste cose non siano state comprese appieno dalle persone. Sull'attualità, nel rapporto tra l'artista, l'impegno e la censura, molte volte si chiede all'artista di prendere una posizione, solo se è la posizione che ricerchiamo. Cosa ti è successo nel momento di incomprensione, ma soprattutto come l'impegno dell'artista può diventare politico?
Non è che è arrivato il momento in cui ho detto "Basta non mi avete capito". Semplicemente è arrivato il momento in cui si cambia. Le incomprensioni comunicative ci sono e sempre ci saranno, semplicemente mi sono reso conto di esser più vicino a determinati temi, rispetto ad altri che affrontavo in passato. Quindi magari può essere politico anche far uscire un disco durante il periodo di Covid, facendo lavorare tutti musicisti pugliesi. Per me questo, oltre a essere qualcosa di piacevole, è qualcosa di politico. Io non parlo molto delle cose che faccio, ma faccio parte anche di collettivi che si sono concretamente impegnati per i lavoratori del mondo dello spettacolo. Io non voglio ricalcare le cose che ho già fatto, le faccio lo stesso ma nella mia vita personale.
Immagino che dopo "Vieni a ballare in Puglia", qualche problema tu lo abbia avuto. Hai subito qualche episodio di censura?
A me è capitato di essere frainteso, non so quanto capziosamente. È innegabile che col passare degli anni sono diventato molto meno provocatore, anche perché in passato utilizzavo qualche tipo di provocazione, anche fine a se stessa, semplicemente magari per concentrare l'attenzione su ciò che dicevo dopo. Non è una forma di autocensura, semplicemente mi sento diverso caratterialmente. È una forma di attenzione estrema alle parole, che si avvicinano di più a ciò che sento oggi.
C'è un personaggio, che hai citato nella tua musica, a cui ti senti più vicino in questo momento?
Sicuramente Guido Anselmi, il protagonista di "8½". È un personaggio nel quale mi ritrovo tantissimo, vi posso assicurare che non vi avrei mai dato questa risposta 10 anni fa: un'opera che avrei skippato dopo tre secondi in gioventù, oggi per me è il più grande capolavoro della storia del cinema italiano. Questo fa capire quanto cambiano i gusti, questo è un personaggio che sento molto vicino a te.
Può esistere un futuro senza Caparezza, ma solo con Michele?
Può esistere il mondo senza Caparezza, ma non senza gli acquedotti. Questa domanda fra 100 anni avrà una risposta certa. Nella mia vita la musica è stata ed è molto importante. Non vivo però con il desiderio continuo di mostrarmi. Basta vedere nello sport, nell'atletica, con personaggi che a un certo punto hanno cambiato vita, senza rimpianti. Arriverà questo momento, anche per me, come per tutti. L'importante è farlo tempestivamente, accorgendosi di quanto qualcosa di bello, stia diventando pericoloso per te. Bisogna assecondare questa vocina, senza rimpianti. Quando accadrà, ve lo dirò.
Intervista di Vincenzo Nasto e Francesco Raiola