Curioso, ma in oltre tre anni di rubriche settimanali non mi era capitato di scrivere di Ligabue. È vero che nel novembre del 2013, quando uscì quel “Mondovisione” che ancora per un po’ rimarrà l’ultimo album di Luciano da Correggio, questo spazio era dedicato solo a fenomeni più o meno underground, ma lo è pure che nei trentaquattro mesi seguenti l’artista emiliano ha offerto svariate occasioni per occuparsi di lui. E tutte, va sottolineato, strettamente legate al suo lavoro: niente scandali, niente gossip di bassa lega (ammesso che ne esista uno di lega alta), niente considerazioni demagogiche buttate lì per catturare l’attenzione oppure, come si dice a Roma, “far caciara”. Una delle sue doti migliori, e non da adesso, è la capacità di inventare maniere mai uguali di far parlare di sé senza spostare i riflettori dall’attività di songwriter, interprete e performer. Magari le idee, spesso brillanti, saranno in parte farina del sacco del suo staff, ma nella storia ormai quasi trentennale del Liga il ruolo di creativo non è mai stato soffocato da quello di personaggio pubblico; se conquista le cronache, è di sicuro per via di una canzone, un disco, una tournée, un riconoscimento, un DVD, un libro, un film (non necessariamente diretto da lui stesso), un video o uno di quegli eventi che radunano folle oceaniche – assai più ampie di quelle che riempirebbero uno stadio – in adorazione del mito. Situazioni eccezionali che i fan ovviamente adorano e che i detrattori reputano – come si dice in Emilia – da inguaribili “sboroni”, nutrimento per un ego assai più pronunciato di quanto facciano supporre gli atteggiamenti di basso profilo.
Come sanno anche i sassi, il nuovissimo happening faraonico – denominato “Liga Rock Park” – avrà luogo nella cornice del Parco di Monza: due concerti il 24 e il 25 settembre, cioè nell’ormai imminente weekend, il primo dei quali è sold out e il secondo è molto probabile che lo sarà. Tra i motivi di richiamo, strombazzata a più non posso dall’efficientissima macchina promozionale, la presenza nelle scalette di quattro brani – addirittura il numero preciso: lo spoiler non poteva essere più generico, per non uccidere il pathos? – di “Made In Italy”, l’album atteso per novembre; uno, il singolo “G come giungla”, è già da venti giorni un tormentone, mentre per i rimanenti si tratterà di una première assoluta. Non mancheranno sorprese, ma certo non potranno essere eclatanti come quelle del 10 settembre del 2005, quando Ligabue portò in scena a Campovolo, a due passi da Modena, la “spacconata” numero uno della serie, che richiamò 180.000 persone (!) e lo convinse che, sì, almeno per lui poteva non esistere un “troppo”; c’ero, alla storica esibizione dei quattro palchi ciascuno collocato su un lato dell’improvvisata “arena”, e non ho remore ad ammettere che, al netto di qualche problema tecnico (del quale il Nostro si scusò, poi, attraverso il Ligachannel), fu uno spettacolo notevole. Un annetto dopo, durante una torrenziale intervista a quattr’occhi, rivolsi a Luciano una domanda tipo “ma che ti era saltato in mente, di lanciarti in quella pazza impresa?”, ricevendo una risposta di quelle che bloccano ogni eventuale replica: “È stato il mio ennesimo atto di incoscienza, nato dalla voglia di fare e dare qualcosa di diverso”. Da Campovolo in avanti, gli “atti di incoscienza” si sono moltiplicati, con trovate mai meno che pirotecniche e riscontri importanti: ricordate le sette più sette date consecutive a Roma e Milano del 2007? Gli otto show negli stadi del 2008? Le sette serate del 2008 e le dieci del 2009 all’Arena di Verona, molte delle quali con l’accompagnamento dell’orchestra? Il “Campovolo 2.0” del 2011 e il Campovolo 2015? “Liga Rock Park” porta Campovolo in trasferta, e tutto lascia pensare a un altro trionfo.
Mi è accaduto frequentemente di sentir paragonare Ligabue agli U2, nel senso che entrambi – al di là delle disparità di mezzi: lui stella di prima grandezza in una sola nazione, loro divi planetari – vedrebbero nella tendenza a esagerare uno stratagemma per nascondere, o comunque per compensare, le carenze qualitative della produzione più recente. Watt, luci in quantità industriali, maximaximaxischermi, location atipiche e fantasiose guarnizioni di stage come tentativo di risarcimento per le canzoni che non sono più quelle di un tempo, nonché come esperimenti di laboratorio per cercare di mantener vivo un interesse che, altrimenti, rischierebbe di calare. Un po’ come in “Jurassic World”, insomma. Se però i panni dell’Indominus Rex calzano a pennello a Bono e soci, il Liga propaga tuttora una sensazione, se non proprio di totale genuinità, quantomeno di buona fede: lui si diverte e i suoi fan idem, e dunque che male c’è a fare lo “sborone”, pratica che oltretutto è dannatamente rock’n’roll? In fondo, Luciano con il rock è cresciuto e non ha smesso di coltivare rapporti, e anche se ha voluto sedarne l’indole più ruvida e ribelle in nome dell’esigenza – è il termine adatto: lui non può rinunciarci – di essere “popular”, le radici sono sempre radici. Attendiamoci allora un lungo futuro di appuntamenti “eccessivi”, di quelli dove la musica, per quanto al centro, sembrerà a tanti un pretesto; Liga, che alla musica continua a tenere tantissimo (come gli venga fuori è altra faccenda), non sarà d’accordo, ma farà buon viso a cattivo gioco. E non smetterà – un minimo lo conosco – di interrogarsi, come fa da un paio di decenni, sulla difficile relazione… “tra palco e realtà”, come in quella sua vecchia canzone.