20 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

Torna Giorgieness: “‘Siamo tutti stanchi’, un disco meno violento che indaga i rapporti umani”

Arrivata al secondo album, “Siamo tutti stanchi”, Giorginess si conferma come una delle realtà musicali più interessanti del vasto panorama indipendente italiano.
A cura di Francesco Raiola
20 CONDIVISIONI
Giorgia D'Eraclea dei Giorgieness
Giorgia D'Eraclea dei Giorgieness

Giorgieness è il progetto di Giorgia D’Eraclea (assieme ad Andrea De Poi, Davide Lasala e Lou Capozzi), che lo scorso ottobre ha pubblicato il secondo album "Siamo tutti stanchi", confermando quanto di buono si era sentito nel debutto "La giusta distanza". Con le mani che affondano negli anni '90, con questo nuovo lavoro la band molla la ruvidezza che caratterizzava il primo, si apre a sonorità meno "violente" come le descrive la stessa D'Eraclea a Fanpage.it senza perdere l'attitudine rock che li caratterizza da sempre, in studio e sul palco. Tanta attenzione anche ai testi, in cui la cantante indaga l'amore (o "l'umanità") "ma in realtà [le canzoni] parlano proprio di quanto sia stato per me impossibile arrivare a quel tipo di contatto con qualcuno, dei miei limiti e di quelli dell'altro".

Ciao Giorgia, partiamo proprio dalle basi, ci spieghi come nasce Giorgieness?

Siamo un progetto musicale nato nel 2011, partito da me e a cui si sono aggiunte altre persone: Andrea De Poi, il primo ad essere entrato nella band, poi sono arrivati Davide (Lasala) e Luca (Lou Capozzi) anche se intorno ci sono tante altre persone, dall'ufficio stampa in poi e siamo tutti uniti. Prima avevo altre band piccoline, scrivevo in inglese, facevo altre cose in Valtellina e da Milano poi è partito il progetto vero e proprio: abbiamo fatto il primo Ep, poi il disco d'esordio e poi quest'ultimo.

Un percorso di crescita classico…

Sì, non solo facciamo musica anni '90, ma seguiamo anche quel tipo di percorso.

Col primo c'era stata tanta attenzione, è passata qualche settimana dall'uscita e immagino ci fosse anche un bel po' di aspettativa. Volevo capire quanta ne era anche per voi…

Sicuramente è stato più difficile fare il secondo, rispetto al primo, perché comunque anche noi avevamo più aspettative, mentre il primo era forse più gestibile. Ne abbiamo parlato tanto prima di entrare in studio, io non ero neanche tanto sicura di avere un altro disco, o meglio lo pensavo perché avevo delle cose da dire ma non sapevo se sarei riuscite a dirle in così poco tempo. Ovviamente ci abbiamo provato, ci siamo dati una deadline e abbiamo detto: ‘Se c'è il disco bene, se no faremo altro'. Alla fine, però, ce l'abbiamo fatta: è stato un bel lavoro di squadra tra me e Davide che ha prodotto anche il primo disco e adesso suona con noi.

Avevo letto che l'idea principale era nata durante un viaggio in Germania col tuo manager Carlo Garrè…

Più che altro mi è servito per stare da sola in silenzio, in un posto dove non capivo cosa dicessero le persone intorno a me, quindi lì forse ho svuotato la testa, non ho scritto nulla ma sono tornata che avevo delle idee molto più chiare. Allo stesso tempo, quando siamo arrivati in studio queste idee non sono uscite subito, abbiamo avuto un altro periodo di pausa, poi ci siamo capiti, ho lasciato molta più carta bianca a Davide rispetto al primo disco, per cui avevamo litigato per ogni singolo accordo (ridono, ndr). Questa volta, invece, è andata meglio, un po' anche perché abbiamo fatto le pre produzioni solo noi, assieme al fonico, volevo dare una forma che sentissi mia.

Quindi avevi anche un'idea musicale oltre che di significato? Anche perché "Siamo tutti stanchi" è un'evoluzione rispetto al precedente, e vira anche verso sonorità un po' più, come dire, ‘radiofoniche'…

Una cosa che mi sono detta per un anno è che non volevo fare un disco violento come il primo, e non perché non mi piaccia più quel disco, ma perché ha rappresentato un momento, i primi 4 anni dei miei 20 e ancora qualcosa dell'adolescenza e sono contenta anche perché quando ho cominciato il progetto Giorgieness era esattamente quello che volevo, però era chiaro che il nuovo dovesse avere un altro suono, anche perché non siamo macchine, siamo persone, e continuiamo ad ascoltare musica. Credo anche nel fatto che la musica contemporanea è bella quando si influenza e non mi vergogno di dire che ci sono gruppi italiani contemporanei di amici che mi piacciono e sicuramente a parlarci, ma anche solo ascoltandone le canzoni, vieni stimolato a fare altra musica. Non si tratta, ovviamente, di fare la copia di qualcosa che funziona, ma di avere le teste diverse e sapere in che periodo storico vivi anche musicalmente. Tornando alla domanda, io arrivo comunque con un pezzo che ha anche una linea di chitarra e vocale, arrivo con un'idea di pezzo poi c'è da dire che quest'album è stato molto lavorato, a livello di arrangiamenti, da Davide. E questo è il bello di trovarsi a scrivere pezzi con una persona: il confronto.

Ci sono due termini che tornano e mi hanno colpito: quel “vuoto” che citi più volte nei tuoi testi (“Mya”, “Vecchi” – occhi grandi e vuoti – “Calamite”) e “vecchio” ("Ma siamo tutti stanchi, siamo vecchi e siamo stupidi. Vecchi i nostri sentimenti e le parole per descriverli" in "Vecchio", oppure “Ti svegli e di colpo sono tutti vecchi” in "Umani"). Mi racconti cosa rappresentano? Non credo che siano casuali…

Ho giocato con le parole ricorrenti, volevo vedere cosa succedeva allo stesso termine messo in situazioni diverse. "Vecchi" o "vecchio" sono usati in questo caso in modo opposto nell'una e nell'altra canzone. Ma alla fine fa parte dell'idea che a volte mi sono sentita una giovane/vecchissima e l'ultima cosa che voglio è diventare una vecchia/vecchia con questa consapevolezza. Si lega al fatto che, per natura, tendo a immobilizzarmi in certi momenti e non combinare niente per giorni, settimane, mesi. E inizio a sentirlo il tempo che va avanti comunque, non voglio perderne o comunque voglio perderne il meno possibile. Per quanto riguarda il vuoto, è qualcosa che sono stata obbligata ad accettare per quello che è: vuoto, gelido e spiazzante. Ma quando lo accetti e sai che passerà, inizi a farci i conti e a lasciarlo fluire. C'è tanto perdonarsi in questo disco, ma senza essere troppo auto indulgenti.

C’è un io, che è Giorgia o il personaggio Giorgieness, e poi c’è un tu che torna per tutto l’album. Me lo racconti questo tu? Anzi raccontami anche quell’io, se ti va.

L'Io narrante non è necessariamente la me stessa quotidiana. Sono le mie parti migliori, quelle peggiori, a volte quelle che nemmeno conosco, insomma quelle più vere e autentiche. Ma anche estreme, in qualche modo le parti di me che mi caratterizzano nel bene e nel male sono l'io narrante delle canzoni. A volte sono meglio di come canto, altre peggio, sto lavorando per arrivare a trovare un Io narrante davvero efficace, credo ci voglia tempo per arrivare a quella libertà che ti permette di scrivere e cantare di tutto. In questo disco, più che nel primo, non mi fermo qualcosa di strettamente autobiografico – anche se poi lo è – ma metto in gioco anche quello che penso. Magari poi tra qualche anno rileggo tutte queste cose che scrivo e mi troverò a sorridere, perché si cambia, si cresce, si vedono gli stessi problemi con altri occhi. Ma sono contenta dell'approccio che uso, sempre viscerale. Ciò detto, il Tu questa volte è un Tu diversificato in ogni canzone, non una lunga lettera ad un solo destinatario, ma una dedica a più persone, a più tipi di persone in certi casi.

È un album abbastanza scuro, almeno nei testi (Mya, che tra l’altro è, a naso, quella con meno parole, è tosta). Jovanotti lo chiamerebbe storytelling, cos’è che, invece, come artista, ti interessa indagare?

Sarebbe un po' megalomane dire "l'umanità". Diciamo che mi interessano i rapporti umani, ma anche il rapporto del singolo con se stesso, con le proprie pulsioni e le proprie paure. Credo ci sia tanto di terapeutico ma anche di magico nel prendere un'emozione, un vissuto, una persona, un intero rapporto o un'enorme paura e chiuderla in una qualsiasi forma di espressione. Da sempre la musica è servita a questo, l'arte in generale. Non è un bene primario eppure l'essere umano non è mai riuscito a stare senza creare. Ecco in quest'ottica, e raramente l'ho detto credo perché è un concetto ancora più assurdo, ma per me scrivere canzoni è davvero qualcosa di sacro. Sicuramente molti dei miei pezzi sono catalogabili come canzoni d'amore, ma in realtà parlano proprio di quanto sia stato per me impossibile arrivare a quel tipo di contatto con qualcuno, dei miei limiti e di quelli dell'altro. Di cosa questa incapacità provoca. E da qui iniziare a conoscersi, proprio toccando i nervi scoperti, per arrivare davvero a parlare di tutt'altro. Credo si possa imparare molto dai propri limiti.

A proposito di “Siamo tutti stanchi”, ho letto che ti sei persa un pezzo di registrazione perché dovevi lavorare. Com’è, oggi, la vostra vita da artisti, musicisti?

Si va su e giù per l'Italia, non ci si aspetta niente ma si semina tutto con tanta passione e dedizione. Intanto ognuno di noi va avanti a fare anche altre cose, chi legate alla musica come me e Davide e chi no. è un continuo alternarsi tra "basta smetto non ce la faccio più" e "è il lavoro più bello del mondo". Credo sia la convinzione forte che prima o poi diventerà un vero lavoro a farti andare sempre e comunque avanti, insieme al fatto che alla fine non vuoi e non sai fare altro. Però sulla carta d'identità ho fatto scrivere che faccio la musicista, tutto sommato la mia vita va bene quindi la risposta è "in miglioramento".

“Molti cercano di attribuirmi flirt con altri musicisti, anche solo per giustificare il fatto che io stia riuscendo ad avere qualche risultato. Non è facile gestire questa situazione ma amen”. Indipendentemente dal gossip, diciamo che l’Italia non è un paese felice per le donne che cantano/suonano. Se fanno rock, poi, addio. Le classifiche, lo sappiamo, contano poco, ma io ogni tanto mi fisso coi numeri. Sai quante donne sono state prime in classifica nel 2017?

Non ne ho idea, forse una? La verità è che non me ne frega molto. Voglio davvero continuare a fare il mio mestiere senza preoccuparmi troppo di tutto questo. A scrivere quello che voglio, a uscire con chi voglio, a fare la mia vita senza questo genere di problema. Perché se inizi a pensarci davvero, non ne esci. Affronti le cose concrete quando capitano, dalle avance all'eccessiva premura di addetti ai lavori che credono tu non sia in grado di collegare due cavi, ma ci passi sopra e basta, non ha davvero senso passare il tempo a pensarci perché poi ti limita davvero. Non critico il femminismo militante, anzi, semplicemente il mio modo di combattere è essere la me stessa che voglio essere senza preoccuparmi di cosa dovrei o non dovrei fare o dire o cantare.

20 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views