Tommaso Paradiso: “È un disco senza pandemia, ma c’è comunque qualche immagine di desolazione”
Si chiama Space Cowboy il ritorno discografico di Tommaso Paradiso, uno degli artisti che ha contribuito, assieme ai Thegiornalisti, a cambiare le regole del gioco del pop italiano. Da "Fuoricampo", terzo album della band, a oggi, con Paradiso che ha una carriera solista ben avviata le cose sono cambiate tanto, ma non è cambiato quel gusto anni '80 che ha contaminato in varie forme quello che definiamo ItPop. In questo nuovo lavoro, che arriva dopo due anni di pandemia, Paradiso racconta di essersi preso – assieme al produttore Federico Nardelli – tutta la libertà possibile. Space Cowboy è un album pop contemporaneo che scava nella quotidianità, che è impregnato di aria aperta, montagne, venti, tantissimo mare, ci sono suoni che sono la cifra del cantautore romano, impegnato ormai come regista di "Sulla nuvola" e in procinto di partire per un tour nei teatri che prenderà il via il 25 marzo da Jesolo.
"Una ditta di gelati ha perso il gusto di lavorare, la curva non canta e la piazza è ubriaca", questi versi possono essere una risposta a quando ci chiedevamo in che modo sarebbe entrata la pandemia nell’arte?
Nonostante dica sempre che la pandemia l'ho lasciata fuori da questo disco, in Tutte le notti c'è qualche riferimento a questo silenzio, a questa tristezza che la pandemia ha generato. È un disco che non parla assolutamente di pandemia, ma essendo io uno scrittore che riflette sulla contemporaneità, evidentemente anche non volendo, sono stato influenzato e qualche immagine di desolazione effettivamente è uscita.
Anche in Lupin c'è un accenno di solitudine, quando canti "Oggi sono stato bene, sono stato bene anche da solo, con il pianoforte e mille cose in testa"…
Sì, però nonostante la canzone possa sembrare molto triste in realtà è una specie di rinascita. Quando dico quella frase affermo un superamento dello stato della solitudine, anche se sono da solo sto bene anche così, che è una cosa che non succede spesso.
Forse sovrainterpreto, per non si può non notare come titoli come Silvia, Domenica, Magari, Vita, Bar abbiano riferimenti a canzoni di Vasco Rossi che citi anche in Space Cowboy (“Tu vuo’ fa’ l’americano ma nel cuore c’hai Vasco”). Che peso ha avuto?
Di cuore ti dico che è casuale, ma non sai mai il cervello che giro fa. Vita si doveva chiamare "Eroi", però ho cambiato, Magari no era semplicemente la frase ricorrente nel testo, poi le parole sono quelle.
Silvia come nasce?
Musicalmente, con Federico Nardelli, che è il produttore di questo disco, abbiamo giocato con la passione per quella musica che tanto ci ha fatto bene quando eravamo un po' più pischelli, ovvero quell'indie americano e anglosassone che a un certo punto prese piede e non si parlava d'altro. E siccome sembra una musica che non sta tornando tanto, non ci sono più quelle indie band, abbiamo voluto usare quel pezzo per riprendere quel mondo. L'altra sera eravamo in un karaoke a Fiano e a un certo punto io e Nardelli abbiamo preso il microfono e ci siamo messi a cantare gli Strokes che forse non sono il gruppo adatto per il karaoke. Siccome volevamo festeggiare questo disco ci siamo messi a cantare Last Nite, ce l'abbiamo un po' nel sangue quella roba lì. Quando uno prende quei riferimenti va sempre decadi più addietro, invece questa è musica sostanzialmente vecchia ma anche molto nuova. Silvia, poi, è un nome di donna che nelle canzoni fila proprio liscio come l'olio, è il nome femminile più musicale che sia mai stato partorito.
C’è molto campo semantico naturalistico: il mare, la montagna, il vento caldo della sera, anche l’Universo, sembra che sia proprio che faccia parte del tuo immaginario, no?
Sì, fa parte dell'immaginario, ma pensa che per esempio nella storia dell'arte un filone che viene poco esaltato, in generale, dal pubblico e dalla critica ma di cui sono completamente fanatico è il Vedutismo, ovvero questi quadri che replicano il paesaggio. Devo dire che sono legatissimo, non so per quale motivo ancestrale, al paesaggio. Mi provoca come una sensazione di estasi e di benessere, mi suscita molte emozioni, anche il semplice sguardo fisso su un paesaggio, su una semplice collina, al tramonto o il mare di cui è intriso questo disco, sarà anche che l'ho registrato in Costiera Amalfitana e forse quella roba lì è entrata nel disco. Evidentemente ho un rapporto con la terra e il cielo quasi metafisico, a questo punto calo la maschera e ti dico che sono proprio uno che queste cose ce le ha dentro.
Com’è la situazione musicale rispetto all’uscita di Fuoricampo quando tutto doveva ancora succedere? In che situazione si cala quest'album e ti cali tu?
Fuoricampo è un disco molto preciso, ha una direzione talmente netta e chiara che all'epoca fece un po' scalpore, con questi ragazzi che proponevano una musica che in Italia sembrava quasi non importasse più a nessuno, anche perché in quel momento ricordo che nel nuovo cantautorato andavano di moda suoni e cantautori che riprendevano i 60 e i 70, mentre gli 80 italiani non erano stati ancora battuti dai miei colleghi. Invece in questo disco ho voluto lasciare spazio alla libertà, prescinde da qualsiasi tipo di moda, non ho cercato un sound alla moda, semplicemente assieme a Federico abbiamo pensato che avevamo delle canzoni, ci piacevano, ci siamo detti che erano belle canzoni, suoniamole e registriamole come mamma le ha fatte. Semplicemente abbiamo lasciato spazio alla melodia, alla musica, ai testi, in modo molto naturale e semplice, abbiamo suonato strumenti primordiali del pop e del rock, ci abbiamo esso tanti cori, tante soluzioni armoniche che ci piacciono, l'abbiamo lasciato proprio in modo tale che da un punto di vista del tempo non possa essere attaccato. È un disco neutrale che suona col nostro gusto, ci abbiamo messo cose che a noi piacciono tanto a prescindere dalle mode.
Nel tuo film Sulle Nuvole il protagonista dà degli occhiali da sole a una bimba che non vuole fare un saggio, dicendole che così diventa invisibile. Hai mai cercato di diventare invisibile?
Quel riferimento che c'è nel film è leggermente autobiografico, adesso sto facendo questa sfida con me stesso e non li sto usando quando mi esibisco dal vivo. Fino a poco tempo fa li usavo per proteggermi: forse è banale ma reale, sai quando i ragazzini si nascondono e chiudono gli occhi e sono scomparsi, visto che non vedono? O quando si mettono le mani davanti agli occhi e non vedono? Ecco, io quegli occhiali li usavo perché facendo scuro davanti ai miei occhi è come se non vedessi quelle persone, come se fossi un bambino che siccome non vedeva le persone non era neanche visto. È un momento per proteggere la propria emotività, la propria fragilità. Ci sono momenti sul palco in cui mi emoziono e non voglio far vedere quell'emozione così grossa e allora metto gli occhiali. Poi maturando mi sono detto, sai che c'è? Mostriamoci per quello che siamo e quello che succede, succede.
“Un articolo sul giornale ha detto che c’è un concerto io lo voglio fare, io ci voglio andare” canti in Tutte le notti. Tu avevi deciso di fare un tour e come tutti hai dovuto spostarlo. Com'è tornare in un periodo completamente differente?
Sono uno dei primi a ripartire, mi sento quasi un apripista, vediamo che succede perché la sensazione che provo io è di assoluto piacere perché il fatto di essere costretto a fare i teatri da un lato non potendo fare i palazzetti è cambiata la situazione, ma va bene, da un altro sono felice perché nei teatri c'è questo rapporto più intimo col pubblico, sono tutti vicini, c'è meno distanza tra te e chi ti ascolta ed è quello che sto cercando in questo momento, di riappropriarmi di una situazione intima con i fan, è una delle cose che va fatta in questo momento soprattutto per i ragazzi più giovani che sono stati costretti a vivere in isolamento e tra Zoom, DAD, hanno vissuto una vita più digitale e trovare quella dimensione di contatto, intima è una cosa molto bella.