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Sette passi dal paradiso: tutte le vite (e le morti) di Miles Davis

Sono passati 25 anni dalla morte di Miles Davis non solo il più grande trombettista della storia del jazz, ma un artista totale, dalle molteplici vite.
A cura di Pier Luigi Razzano
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Miles Davis (Getty Images)
Miles Davis (Getty Images)

Il problema è che il paradiso era sempre a sette passi. Dannato paradiso apparso in una notte, soltanto una notte, capace con la sua luce di spaccarti pure le ossa, e poi lasciarti lì a cercarlo ancora, a scacciare tutto il buio che è rimasto. In quella notte che tante volte dura anche di giorno muori sempre. E dopo sai che ricomincerà l’ansia della scalata. O arrivi lì o non sei niente.

Una beata maledizione che tormenta Miles Davis anche la notte di ottobre del 1972, strafatto di cocaina e ansiolitici, con tanta di quella cocaina a sacchetti sparpagliati in bella mostra sul sedile che va a schiantarsi con la sua Lamborghini Miura sulla West Side Higwhay, costeggiando l’Hudson River, direzione Harlem, dopo un concerto che neppure ricorda dove l’ha tenuto e con chi suonava.

Miles Davis è morto quella notte a Manhattan e un’altra serie infinita di volte prima di morire definitivamente venticinque anni fa, il 28 settembre del 1991, a sessantacinque anni, in un letto d’ospedale a Santa Monica a causa delle complicazioni di una polmonite e di altri problemi come il diabete e l’artrite che minavano la sua grande tenacia ringhiosa a voler sempre rinascere.

La nascita di un mito

Il paradiso arrivò da lui nel 1944, a pochi passa da casa, a East Saint Louis in Illinois, quando il diciottenne Miles si ritrovò di fronte Bird&Diz. Un fulmine caduto proprio davanti ai suoi piedi. La tromba che gli aveva regalato sua madre a tredici anni, con cui si esercitava anche quando suo padre, Miles Dewey Davis II, il dentista del paese, rientrava stanco la sera, poteva generare lo stesso suono, sconvolgere il mondo come era accaduto a lui, rimasto così stravolto da non riuscire più a toglierselo dalla mente?

Era questa la grande e continua ossessione di Miles Davis: sentirsi addosso gli occhi increduli del mondo intero che ha appena ascoltato ciò che non esisteva prima.

Miles sconvolge l'Isola di Wight

Per farsi un’idea della scoperta che sbalordisce, bisogna fare un salto in avanti di quasi trent’anni, arrivare nel pomeriggio del 29 agosto 1970, Isola di Wight, quando seicentomila persone, il pubblico che è andato lì per Jimi Hendrix, Joni Mitchell, i Who, i Doors ammutolisce inondato dalla frantumazione sonora del “Bitches Brew Live” che Miles Davis imbastisce guidando il groove demoniaco di Dave Holland al basso elettrico e Jack DeJohnette alla batteria, su cui Chick Corea ricama fughe lisergiche al Fender Rhodes, Keith Jarrett che demolisce le armonie pestando l’organo elettrico, Airto Moreira alle percussioni che in quell’ammasso di sovrapposizioni di tempi e melodie, dove si fa spazio il sassofono di Gary Bartz, riporta la musica a uno stato tribale, di trance, di rinascita da un magma inarginabile. E poi tocca a Miles Davis. Tromba rivolta verso terra, alla Terra, con note strappate, lancinanti, che a ogni soffio intravede il paradiso, lì a sette passi, e che quando termina l’esecuzione, dopo 35 minuti di sabba che ha celebrato la morte e la rinascita del jazz, la venuta al mondo del jazz elettrico e stellare, il jazz che ha stretto un patto mortale con il rock e già fa torcere il naso ai puristi di bop, free, cool e dinosauri nostalgici di vecchie big band da sala, Miles Davis lascia seicentomila persone in estasi. Esce per primo e dà loro le spalle, poi ritorna a studiare la loro reazione. Pochi istanti concessi al pubblico per capire se quel suono gli sta ancora spaccando le ossa.

Miles Davis, il prince of darkness, non era nient’altro che questo: un feroce istigatore della sua anima inquieta che non sottostava neppure all’unica cosa in cui credeva, la musica. È stato tra i più grandi musicisti e innovatori del Novecento perché era lui a dominarla e spingerla in direzioni ancora impreviste. Prese il jazz e lo incendiò. Innumerevoli volte. Parker e Gillespie lo avevano fatto quella notte del 1944, e Miles Davis alzando la posta, non appena prendeva forma, subito la distruggeva per inseguire un’altra rotta delle fiamme che gli bruciavano dentro e soffiava nella tromba.

Sempre e solo Miles Ahead

Subito dopo il diploma arrivò a New York, seguiva le lezioni alla Juilliard School, ma fuggiva verso i jazz spots della 52esima per abbeverarsi della lezione di Thelonious Monk, Coleman Hawkins e dell’infinita galassia di musicisti che saliva sul palco e lui seguiva trascrivendo sui bigliettini dei fiammiferi gli accordi. Guardava in faccia la luce più accecante per carpirne il segreto, se ne allontanava astuto prima che potesse bruciare. A volte gli toccava di accompagnare a casa Charlie Parker intontito dall’eroina, incapace di muovere un passo, e doveva pure togliergli l’ago dal braccio. Per un po’ riuscì a resistere, ma poi cadde anche lui nel tranello della droga dei jazzisti. Solo la tenacia e la sofferenza del rimedio detto cold turkey, del tacchino freddo, restando chiuso in una stanza per giorni e giorni, lo riportò alla vita, poi ad altre ricadute, ma sempre in testa, sempre Miles ahead, condottiero pronto a guidare il jazz verso la nascita del cool durante le sessioni di gennaio e marzo del 1949 e del 1950, ma che furono pubblicate solo nel 1957.

"Birth of Cool"

“Birth of the Cool”, che splende con le gemme “Jeru”, “Moon Dreams” e “Venus de Milo”, è l’esempio di un’orchestrazione compatta offerta da Gerry Mullingan al sassofono e Max Roach alla batteria, tra gli altri di un ensemble stellare, su cui la tromba di Miles Davis fugge dolce, sicura, sfrontata, ormai imprendibile. Quel disco segna anche la nascita del sodalizio con l’arrangiatore Gil Evans, e con lui realizzerà “Miles Ahead” (1957), “Porgy and Bess” (1958), “Sketches Spain” (1960). Dischi che incarnano la natura del jazz di rigenerarsi infinite volte a partire dagli standard, materiale che esplode e trova una nuova forma nell’intuito di Miles Davis. Basta ascoltare le gloriose registrazioni del 26 ottobre 1956 con il quintetto formato da John Coltrane, Red Garland, Paul Chambers e Philly Joe Jones. Da quelle sessioni usciranno ben cinque dischi: “Relaxin’”, “Workin’”, “Steamin’”, Cookin’”. Su tutti vale l’ascolto, infinite volte, di “It never entered my mind” e “My Funny Valentine”, traditional song della coppia di Rodgers-Hart.

"Kind of Blue" e il jazz modale

Tre anni dopo Miles Davis guidò il gruppo all’ennesima e stupefacente e nuova dimensione sonora, assoldando al sax alto Julian “Cannonball” Adderley e Bill Evans al piano. Entrò in studio con alcuni schemi tracciati su dei fogliettini che indicavano la natura dell’improvvisazione: non più sugli accordi di un tema ma su tipi di scale, di modi. E nacque il jazz modale, nacque “Kind of Blue”, il capolavoro di Miles Davis insieme a “Bitches Brew”, esattamente dieci anni dopo, quando già era entrato nel territorio del demonio elettrico e dello sfaldamento di ogni trama melodica. In mezzo a questi due dischi – una sequenza di milestones – anni di rinascite e droghe e donne trattate come turniste, una sera e via, ma soprattutto il fiuto, la genialità di intercettare e raccogliere attorno a sé talenti giovanissimi che diventeranno tra i migliori musicisti del Novecento. Nella sua orbita gravitarono: Herbie Hancock, Wayne Shorter, Tony Williams, Joe Zaawinul, e negli anni ’80 Joe Scofield, Marcus Miller. E sono solo alcuni. Con ognuno di loro inseguì la riconquista del paradiso che non aveva mai smesso di chiamarlo da quella notte del 1944.

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