Serena Brancale: “Non chiamatemi cantante jazz, non voglio sentirmi stretta in un genere”
Jazz, soul, R'n'B, Pop, insomma nel suo terzo album, Je sò accussì, Serena Brancale non si fa mancare niente, lavora là dove è una delle migliori in Italia, cesella, fa cover, porta con sé pochi ospiti ma buoni e soprattutto guarda al di là delle barriere dei generi, tenendo sempre la barra dritta sul suo Sud, su un'autostrada che da Bari porta a Napoli e poi scende giù, ad abbracciare tutto il Mediterraneo. E lo fa facendosi accompagnare da artisti come Ghemon, Davide Shorty, Roshelle, Margherita Vicario e Fabrizio Bosso e Richard Bona, con la consacrazione di un artista come Quincy Jones e una stella polare come Pino Daniele: "Sono libera di mostrare la mia identità musicale, senza sentirmi stretta in un genere. Ho sempre desiderato cantare Pino e in questo album ho preso coraggio. Sì, perché è un grosso rischio ma per fare questo mestiere devi metterlo in conto" ha detto la cantante a Fanpage.
A livello sonoro come hai lavorato a Je sò accussì? Avevi un’idea precisa o hai cambiato direzione costruendolo?
Non ho mai cambiato direzione in questi 3 anni di costruzione album. Sapevo che sarebbe stato più facile all’ascolto rispetto ai primi due ma avrei conservato la matrice jazz perché è il genere che mi fa sentire a casa, del quale mi sento più padrona.
“Dimmi cosa c’è di strano, ascolto ancora Kind of Blue” canti in “Like a melody”. È un album che non si nasconde, cerca uno spazio più mainstream: che spazio c’è secondo te, oggi, per chi vuole muoversi su questo crinale?
La frase riferita allo standard jazz rivela un po’ di malinconia, una sorta di suadade per chi invece di produrre musica al pc, oggi preferisce scrivere suonando ancora il pianoforte acustico. Penso che l’artista cerchi ogni giorno il proprio spazio mainstream in Italia, la propria nicchia. Mancano le radio soul, i festival RNB ma sono fiduciosa e penso sia solo questione di tempo perché avverto già un cambiamento.
Come mai l’abbattimento delle barriere e dei generi – nuove generazioni, a parte – fa ancora paura qui da noi?
A me ha sempre disturbato l’etichetta cantante jazz o cantante soul. Sarebbe bello chiamare l’artista per nome evitando di entrare in quel mondo inutile di vecchi stereotipi. Ormai la musica è cambiata, il jazz può essere tutto come niente e sicuramente non è più quello di una volta.
Le è capitato che nel mondo discografico le sia stato detto cosa fare e cosa dire? E come ha risposto?
Sì solo una volta. Rapporto durato poco, perché se non c’è dialogo e intesa con la produzione e il tuo team non realizzi un album per te ma per il piacere di qualcun altro.
Ho letto che la collaborazione con Bona è nata tramite i social, ce lo racconteresti? E con Quincy Jones?
Con Richard è nato tutto grazie ai social e al rapporto di stima reciproca. Grazie alla sua grande generosità ha fatto ascoltare l’album a Quincy Jones il quale mi ha omaggiato dei suoi preziosi auguri invitandomi ad entrare nella sua famiglia. È un grande onore per me, stiamo lavorando per una collaborazione.
C’è un forte asse Bari-Napoli, con un’attenzione particolare al Sud – in generale – e a Pino Daniele. Pino era proprio esempio di fusion portato al grande pubblico: cosa c’è in lui che non c’è in altri grandi artisti?
In Pino c’è la sperimentazione e il coraggio che ascolto in pochi cantautori oggi. In Pino c’è l’attaccamento alla sua terra e la genialità nel far sembrare bella anche la parola più brutta napoletana. C’è un amore profondo per Napoli senza filtri, nel bene e nel male. Questo dettaglio lo trovo unico.
Qual è il Rinascimento per la nuova musica italiana? O è spacciato, come dice Alexa in un tuo brano?
Il rinascimento è nelle cose semplici: nella famiglia, nell’amore che dai e ricevi dalle persone. Puoi rinascere se cerchi la bellezza e in questa io scorgo al primo posto la musica.