Ron, dai genitori a Sanremo: “La musica mi ha tolto l’adolescenza, ma che esperienza unica!”
Sono passati otto anni dall'ultimo album in studio per Ron che è tornato con un album, "Sono un figlio", in cui partendo dalla storia dei suoi genitori, affronta la sua vita, il suo presente e il suo passato. Un racconto autobiografico – scritto con l'aiuto anche di altri autori – che si compone di 13 canzoni con un unico feat di Leo Gassmann e una cover tratta da Finneas, artista statunitense ed emblema della voglia di Ron di mettersi sempre in gioco, di cercare nuove strade, nuove sfide. A Fanpage.it ha raccontato quest'album, ma anche i pugni presi in questi 50 anni di carriera, la genesi di alcune canzoni, il presente, il passato con De Gregori e Dalla e il futuro.
Come nasce l'esigenza di ripercorrere la sua storia familiare proprio adesso?
Nasce soprattutto con una canzone che si chiama "Sono un figlio", che dà il titolo dell'album: durante la pandemia non sapevo mai cosa fare, mi avvicinavo al piano ma non arrivavano le canzoni, poi un giorno, cercando in uno sgabuzzino delle cose che avevo ho ritrovato un vecchio diario di quando avevo 13 anni. Ho cominciato a sfogliarlo e ho trovato la storia che racconto nella canzone, quella dei miei genitori, di come si sono conosciuti nel mezzo della Seconda guerra mondiale, con mio padre, inseguito dai tedeschi, che si era nascosto nella cantina della casa della mia futura madre senza che lei lo sapesse.
Un film, praticamente…
Esatto, e mi è piaciuto raccontare questa cosa con una enorme gratitudine nei loro confronti, perché sono stati fantastici. Da ragazzino, ero molto giovane, cominciai a dirgli sempre più spesso che da grande volevo cantare e loro inizialmente rispondevano sorridendo, poi a un certo punto, quando hanno capito veramente che quello che volevo fare, mi hanno detto che l'importante era che fossi felice, per cui se la musica mi rendeva felice potevo fare quello che volevo. Avevo solamente 14 anni e avere due genitori che ti aprono alla vita e alla tua passione completamente è una cosa non da tutti.
Ne "I ragazzi italiani", canzone non scritta da lei, certo, però già faceva un profilo paterno "Mio padre a quel tempo aveva i baffi e un'automobile a carbone".
Sì, sì, è vero, il testo è di De Gregori mentre io scrissi la musica.
A proposito di De Gregori, come fu il tour di Banana Republic?
Fu una cosa pazzesca, anche perché stavamo vivendo gli anni di piombo e non era per niente facile. Io ero stato tagliato fuori insieme a tantissimi cantanti, Morandi addirittura aveva smesso di cantare e si diplomò al Conservatorio in contrabbasso, per cui era una cosa dura. Però mi ricordo che a un certo punto Lucio (Dalla) e Francesco (De Gregori) si videro a una cena alla quale ero invitato anch'io insieme al produttore di Lucio, Enzo Cremonini, e a un certo punto mi dissero: "Facciamo una tournée e spacchiamo questa porta di ferro". Fu una cosa eccezionale perché non se l'aspettava nessuno che potesse riempire sempre tutti gli stadi, per me fu un'esperienza unica.
In quest'album parla molto di futuro, che rapporto ha con le nuove generazioni?
Il cambiamento, anche violento, non mi ha mai spaventato. Il Covid ha creato uno stop pazzesco e ci siamo trovati improvvisamente in un mondo nuovo, con l'arrivo, nella musica, di tutti questi ragazzi, cantanti, rapper, non rapper, alcuni con grande talento. Mi sono reso conto che l'attenzione in questo momento è veramente su di loro e sono felice se avranno un futuro ancora migliore e fortunato.
La scelta di Gassmann va anche in questa direzione?
Leo venne nel mio studio a registrare alcune canzoni nuove, peraltro meravigliose, non sapevo che scrivesse così. E visto che scrive così bene gli ho chiesto: "Perché non fai mio figlio in una canzone?", anzi, gli ho detto: "Perché non ti scrivi la tua parte, e la canti?". Così l'ho messo anche a scrivere per farlo essere quello che è, non solamente un cantante, ma un cantautore.
“Quel fuoco” è una cover di “Break my heart again” di Finneas. Lei è amante delle cover, una volta era quasi obbligatorio per i cantanti italiani farle. Qual è il suo rapporto con l'idea di fare proprie canzoni altrui?
Io sono uno che ascolta praticamente solo musica americana, inglese, che è quella che mi ha fatto crescere nel tempo. La mia grande passione è nata da lì e quando arrivò "Una città per cantare" che allora si chiamava The road, scritta da Danny O'Keefe, poi cantata da Jackson Browne, mi resi conto di essere completamente dentro quella canzone, ero quello lì che stava cantando, per cui per me è stata una cosa bellissima. Lucio tradusse il testo e quando Jackson Browne volle sapere cosa dicesse il testo in italiano mi disse che molto meglio in italiano che in inglese. Facemmo un figurone.
Non fu l'unica, però…
No, ho continuato, feci "I can't go for that" un brano Daryl Hall e John Oates, e poi altri quattro o cinque brani. Mi piace l'idea di ascoltare un brano in inglese e sentirmi preso dentro, così penso immediatamente di poterlo tradurre e provare a cantarlo. Ho addirittura fatto un album che si chiama "Way Out", in cui ci sono tutti brani di un po' di artisti inglesi, c'è anche John Mayer, di cui ho tradotto i testi. Per me era un modo per far sentire all'Italia che anche là ci sono dei cantautori per cui non è facile uscire, perché per diventare cantautori bisogna fare tanto lavoro e tanta gavetta.
C'è un luogo comune che vuole che crescendo si diventa conservatori, abbiamo sempre meno voglia di scoprire. Lei invece ha detto che stare a casa invece l'ha spinta a cercare cose nuove. Che rapporto ha con la ricerca? Riesce ad ascoltare roba nuova e ad appassionarsi?
Guardi, io ascolto solo roba nuova, mi metto su Spotify e lascio andare. Da poco, per esempio, ho scoperto un musicista pazzesco che si chiama Ethan Gruska, è eccezionale, dopo Prince lo metterei tra i miei preferiti. Eppure è vero che sta facendo anche fatica, ha fatto anche un singolo con Bon Iver. È molto particolare, però quando canta e quando suona è eccezionale.
“I pugni se li prende, di nulla mai si pente” canta in Melodramma pop: mi parla di qualche pugno che ha preso in carriera?
Un anno dopo Banana Republic è venuta "Una città per cantare". Ebbi la malsana idea di fare dei concerti nelle discoteche e fu un disastro totale, con fischi bestiali, e lì mi resi conto che non era facile neanche con una canzone come quella, che all'epoca non avevo ancora registrato, pur facendola già dal vivo. Solo che quando la facevo la gente fischiava. Questi sono i pugni che sono arrivati, ma poi anche grandi soddisfazioni, perché poi la canzone ebbe un grande successo.
Con quale spirito si confronta col mercato musicale odierno?
Non è che possiamo dirci felici perché si vendono pochissimi dischi, quasi nulla, e questa è una cosa che dà grandi problemi anche alle case discografiche. Lo è anche entrare in un'etichetta, adesso, a meno che tu non sia nell'onda di questi ragazzi che sono usciti. Ma se sei un cantautore abbastanza classico che scrive anche bene le case discografiche non sono contente per niente, puoi avere anche 16 anni, essere bello come il sole, ma purtroppo oggi va un suono e solamente quel suono.
A proposito di Sanremo ha detto: "Non mi hanno invitato… Sarebbe il festival della canzone, quindi dovrebbero scegliere in funzione dei brani, invece mi sembra che sia tutto sui personaggi, su chi canta". Qual è il suo rapporto oggi?
Direi buono, anche perché devo solamente ringraziare, avendolo vinto insieme a Tosca (con "Vorrei incontrarti tra cent'anni", ndr), una vittoria straordinaria, perché non credevamo assolutamente di poter essere così fortunati, invece la gente ha amato la canzone fin da subito. Non c'è mai abbastanza attenzione sulle canzoni, però, anche se Amadeus è uno che sta molto attento, ma quando vedo Sanremo mi manca sempre qualcosa dal punto di vista autorale, sebbene ci siano persone che cantano benissimo, penso alla vittoria di Leo Gassmann, che canta benissimo.
Ci ha messo un po' di mano in Melodramma pop, canzone che parla della sua vita?
Assolutamente no, è un pezzo che ha scritto interamente Guido Morra. Un giorno mi fece leggere il testo e mi divertì molto perché in effetti aveva seguito la mia vita musicale. C'era andato molto vicino, per cui è stato bello cantarla.
Parla di padri, racconta la sua vita, si guarda nel passato. C’è qualcosa che avrebbe voluto e non è riuscito ad avere?
Credo che andare a Sanremo a 16 anni, con un'esperienza immediatamente buona, mi ha fatto ritrovare a non tornare quasi mai a casa a causa dei tanti impegni. Il tempo passava e arrivavano anno su anno, così mi sono accorto di non aver vissuto la mia adolescenza e questa è la cosa che mi manca tantissimo. Mi manca veramente tanto perché allora vedevo quelli per un po' più grandicelli di me che la festeggiavano sempre, era un modo importante per crescere.
Le capita ancora di sedersi in faccia al Golfo di Napoli, e ringraziare Dio, per citare "Mannaggia alla musica"?
Lo sa che quella canzone è nata proprio durante Banana Republic? Dopo il concerto si andava a mangiare, quando venimmo a Napoli siamo andati a mangiare da Zì Teresa, eravamo in pochi al ristorante quella sera e c'era un suonatore di fisarmonica, era grande e grosso e io avevo davanti Francesco De Gregori e lui mi disse: "Ma secondo te che vita ha?", io risposi che non sapevo come vivesse una persona che andava in giro a cantare, con la fisarmonica, sicuramente aveva bisogno anche di mangiare, e lo sto facendo anche con un grande, bello spirito, aveva sempre un sorriso mentre cantava e dopo tre-quattro giorni mi diede il testo e venne fuori così la canzone.
Stavo riguardando il live a RSI di Ragazzi italiani con Lucio Dalla al sax, un pezzo incredibile…
Sì, era una canzone con un testo eccezionale che hanno scritto appunto Francesco e Lucio mentre io avevo scritto la musica. Avevamo questa musica su cui dovevano mettere un testo e lo fecero in macchina, mentre andavamo a Bologna in quattro: io, Francesco, Lucio e il produttore di Lucio.