Radiohead: ‘A moon shaped pool’, un album di ghiaccio dal cuore bollente
La trovata vincente, eccola. Il disco postumo di una band ancora in vita, che l'1 maggio fa tremare le bacheche di mezzo mondo perché erano svaniti da Facebook e non c’era più un tweet, uno sconsolante vuoto completo sul sito ufficiale. Sono morti i Radiohead, evviva i Radiohead. Vai con la pubblicazione delle più celebri canzoni. Non è così che si fa da quando Bowie e Prince e Scott Weiland degli Stone Temple Pilots e via via tutti gli altri ci hanno lasciati e ogni nostro profilo è diventato una personalissima collina di Spoon River dove dormono tutti e si va a commemorare quest’epoca di eterno rimpianto per la musica che non è più quella che era o dovrebbe essere?
Subito in molti hanno postato ‘How Disappear Completely‘ che Yorke cantava nel 2001, quasi avesse applicato a distanza di anni quel desiderio di totale eclissi portandosi dietro tutta la band. Via, via dal pazzo mondo, anzi dal web, che poi è diventata la stessa cosa. Per i più smaliziati il bianco assoluto materializzatosi all’improvviso sullo schermo, e l’assenza di quelle tracce del passato, non era nient’altro che il più strategico dei lanci pubblicitari per il nuovo disco che si aspettava dal 2011 dopo l’amato e odiato, incensato ‘Kings of Limbs‘ e poi sostituito da un ripetuto ascolto di ‘Ok Computer', ‘Kid A', oppure ‘In Rainbows'.
Un giorno muori, perché non sei più on line, e gli status sono lumicini che celebrano la grandezza, due giorni dopo, il 3 maggio, la riapparizione, la rinascita, c’è un nuovo vagito, la bacheca si rianima, il battito/bit ricomincia a sussultare, i “morti” Radiohead, dopo un brevissimo lutto digitale, rilasciano la nuova canzone, ‘Burn the Witch', che anticipa l’uscita di un imminente album, però le notizie sono ancora poche, a bocconi, siamo di fronte a piccoli passi, il neonato per molti è già un bimbo geniale che promette bene, altri storcono il naso perché non si capisce bene se somiglia alla madre, no al padre, se sarà un genio dell’astrofisica o farà disperare i suoi genitori.
Eccoli i furbastri Radiohead che con il video i stop motion di ‘Burn the Witch‘ offrono uno sfottò a tutti noi della congrega-villaggio Facebook che aspettiamo qualcuno da giustiziare e far ardere sul rogo della bacheca che ha nel tasto un discreto lanciafiamme. E pure gli archi che aprono il brano sono un colpo da maestri. Quasi a volerci dire: ‘Potremmo fare i Coldplay, ma non ci trasformeremo mai in loro, non ci perderemo, abbiate fiducia, ci siamo mai venduti? Se solo provate a pensarci con Rihanna… aguzzate bene bene le orecchie, ascolterete la sezione della London Contemporary Orchestra su un grande e imprevedibile pezzo di art-rock, niente ‘Viva la vida', semmai l’incedere degli archi non vi ricorda quel passaggio di ‘Good Vibration' dei Beach Boys?'.
Il bambino geniale dei Radiohead sprigiona buone vibrazioni, e dalla culla di ‘Burn the Witch' si lancia subito a ampie falcate in un’altra direzione, ha bisogno di molto spazio. Il 6 maggio altro brano, la bacheca ricomincia a rimpolparsi, spunta ‘Daydreaming‘, il video di Paul Thomas Anderson segue lo straniamento di Yorke che va in giro per stanze, apre porte, incontra gente: cerca la sua band. Sono stato troppo solo in questo tempo di dischi solisti e Atoms for Peace, ho bisogno dei miei amici, di stare a casa, sembra dire con il suo occhio sbilenco che mai come questa volta tremola di nostalgia e desiderio di ricongiungersi in un luogo confortevole dopo che è anche finita la lunga storia d’amore con Rachel Owen. Il gocciolare di note di piano, dolci e ossessive, scavano la caverna, creano il rifugio, una pura estasi di sei minuti e più di ingegneria sonora curata da Nigel Godrich, musica da camera contemporanea che sgombera il campo da qualsiasi obiezione o storcimento di naso.
Non sapete ciò che vi aspetta. Ma quanto aspettare?
Poco poco. Così domenica 8 maggio alle 8 le voci dell’apparizione di un intero disco diventano realtà. Nono album, ‘A moon shaped pool‘, disponibile solo sul sito, (nuovo)!, della band, o su iTunes e Tidal, niente Spotify per il momento, mentre l’album con l’artwork di Stanley Downwood sarà disponibile fisicamente in vinile e cd solo dal 17 giugno.
Dentro c’è tutta la voglia di Jonny Greenwood – non più solo chitarrista, ma esploratore di mondi sonori – di impiantare nella struttura canzone scenari cinematografici, estenderla in ambienti spaziosi. I cori eterei nella terza traccia, ‘Decks Dark', riportano i Radiohead sulle rotte di ‘Kid A', ma la strada è uno sterrato dove strimpella, subito dopo, in ‘Desert Island Disk', una chitarra strappata, che ha l’incedere di un folk lunare. Questa, insieme a ‘The numbers', ‘Present tense', ‘Identikit' e la successiva ‘Ful stop' erano state già presentate dal vivo in varie esibizioni, del solo Yorke o durante il tour di ‘Kings of Limbs', ma trovano nel lavoro in studio la compattezza meditata che impone numerosi ascolti dell’intero album, interamente stratificato di suoni gelidi che si liquefano, si sciolgono solo se non lo lasci girare con distrazione, ma segui i Radiohead nell’ennesima avventura di chi, per trovare aria nuova e buona, si arrampica su vette dove le temperature scendono e tutto diventa irreale (vedi anche Yorke nel video di ‘Daydreaming' che sul finale sale e sale, abbandonandosi nella più confortevole spianata di neve).
‘A moon shaped pool' è un disco gelido che ha bisogno di tempo per sciogliersi e mostrare il suo cuore caldo e sincero; ha anche improvvise sortite bossanovistiche, come ‘Present tense', che non ti aspetti, ma proprio perché non te l’aspetti, da loro, la fiducia su quante belle sorprese possano esserci ancora ti invade.
Ma cosa vuol dire il titolo enigmatico, ‘Una piscina a forma di luna': che abbiamo ristretto lo spazio distante da noi, su cui vagheggiavamo, in un perimetro stagnante, condizionato, limitato, senza più fantasia? Che non alziamo più lo sguardo, ma preferiamo vederne il riflesso riprodotto su uno schermo, in specchio simbolo di intrattenimento, svago, agonismo, eccesso di benessere?
Chiude l’album una sorpresa. ‘True Love Waits', un vecchio vecchio brano che Yorke cantava dal vivo, solo con chitarra, che finì nel disco live ‘I might be wrong' e poi niente più. Ci hanno provato tanto a inciderla, Godrich diceva ‘non ha mai funzionato, una canzone deve avere una valida ragione di esistere, potremmo rendere ‘True' con il suono alla John Mayer, ma nessuno vuole farlo'. Prende finalmente la forma inseguita per anni. Solo un tappeto di pianoforte, una sovrapposizione di note cascanti che sorreggono il canto di chi comprende che ogni storia d’amore è una storia di attesa e fiducia e devozione.