La settimana scorsa si è parlato degli uffici stampa e della loro utilità (reale o presunta) per farsi strada nel circuito rock italiano. Da ciò è derivata un’interessante discussione sulla mia pagina Facebook, dalla quale sono emersi non meno cruciali interrogativi sulle etichette discografiche e sulla loro funzione in quel circo affollatissimo di equilibristi e pagliacci, ma non sempre divertente, che è diventato il music business nazionale. E allora, mi sono domandato, perché non affrontare anche questo tema? A ben vedere, i motivi per non farlo sarebbero tanti e validissimi, a partire dal problema di condensare una faccenda piena di sfaccettature complesse, ma benché sia un lavoro sporco qualcuno deve almeno provare a svolgerlo e dunque eccomi qui. Parto dall’ABC, precisando che per “etichette” si intendono strutture che producono dischi fisici (CD e/o vinili), ma di dimensioni medio/piccole; non, insomma, le tre multinazionali superstiti (Sony, Universal e Warner, in ordine alfabetico), il cui modus operandi è molto diverso a tutti i livelli, ma le cosiddette indipendenti. Un panorama ampio e multicolore dove ciascuno agisce alla sua maniera e con risultati (o non-risultati) di ogni genere, ma nel quale è facile rilevare elementi comuni. Ad esempio, che ogni label è gestita da una o due persone che si dividono i non pochi compiti conciliandoli a fatica con le esigenze di un’altra fonte di reddito, perché la povertà del settore è tale che è meglio non rischiare di trovarsi con – si scusi il francesismo – il culo per terra; che, fatte salve inevitabili anomalie, la specializzazione in un “macrogenere” – canzone d’autore, elettronica, punk/hardcore, psichedelia, indie di qualità, indiesfiga, metal, avant-rock, hip hop e quant’altro – domina sull'eclettismo delle scelte artistiche; che tutte rispettano standard di professionalità, nelle registrazioni così come nella diffusione/promozione dei prodotti e nelle confezioni (non un dettaglio, dovendo convincere il pubblico ad acquistare qualcosa che può ascoltare gratis).
Lo ammetto, senza alcuna difficoltà: con l'eccesso di offerta degli ultimi anni, figlio dell’abbattimento di un’infinità di costi che un tempo favorivano la scrematura, per chi come me ha un ruolo nel mondo dei media certe etichette sono una mano santa. Perché quando mi arrivano dischi e comunicati con su apposti alcuni marchi – potrei citarne una ventina, ma poi i titolari di quelli che dimenticherei ci rimarrebbero male e quindi niente nomi – gli dedico attenzione in automatico: so che hanno alle spalle gente che investe e che lo fa davvero, spinta da genuina passione e non solo dal desiderio più che legittimo di eventuali guadagni. L’unica controindicazione, se così vogliamo chiamarla, è che difficilmente dalle label di cui sopra giungono prodotti realmente coraggiosi e fuori dagli schemi della nicchia di mercato di appartenenza; è il prezzo da pagare, appunto, per la scrematura, perché tutti noi giornalisti sappiamo che ogni artista o pseudotale attivo in un ambito stilistico specifico, prima di autoprodursi avrà bussato, incassando indifferenza o rifiuti, a una o più di quelle porte, e che pertanto non dovrebbe essere proprio un fulmine di guerra. Va da sé che non mancano eccezioni anche luminosissime alla regola, ma sono per lo più fra coloro che un nome se lo sono già fatto, per i quali l’autarchia è una preziosissima risorsa e non l’ultima spiaggia; gli esordienti e i quasi esordienti che fanno da soli, o che si affacciano alla ribalta con stampati sui loro CD loghi improbabili, sono nella maggioranza dei casi condannati a raccogliere briciole. Mettetevi nei panni di uno come me, che ogni mese riceve dai duecento ai trecento album di gruppi e solisti italiani: come potrei mai ascoltarli tutti, avendo da scrivere, assistere a concerti, pensare alle normali incombenze della vita (tipo la casa e la famiglia), mantenere un minimo di rapporti sociali, mangiare e dormire, non dimenticando che bisogna fare i conti pure con la produzione estera? Ecco perché, una settimana fa, avevo azzardato il discorso – accademico e utopico, naturale – che sarebbe stupendo se gli uffici stampa filtrassero sulla base della qualità e non promuovessero ogni scappato di casa perché “pecunia non olet”.
Oggi, per me e quelli come me, la migliore “raccomandazione” che un disco sconosciuto possa avere – destinata a tradursi nell’ascolto pressoché immediato, e forse in un articolo – è il simbolo di un’etichetta seria sul retrocopertina. Non è pigrizia né tantomeno servilismo nei confronti del “sistema”, è semplice sopravvivenza: non si può fare in altro modo, a meno di non vestire i panni di quelli che, per darsi un tono, si ergono ad alternativi all’alternativa e non filano nulla di ciò che ottiene un minimo di fama, per tessere invece le lodi di musicisti che su Facebook non hanno nemmeno il “like” della fidanzata. Chiaro che l’etichetta deve essere seria, e non una di quelle non-label che dicono “bravo!” a chiunque sia appena sopra il limite tra decenza e sconcio, spingono i malcapitati a incidere in un certo studio e si fanno pagare – gonfiando magari l’importo – la stampa del CD e la promozione che di fatto non ci sarà, avendo pure la faccia di bronzo di pretendere, per il “servizio”, le edizioni musicali. Anche se ci sono etichette che provvedono a tutto, è frequente che un artista copra le spese del master ricevendo in cambio un tot di copie da vendere al banchetto, ma ogni altra richiesta per lui onerosa dovrebbe comportare l’istantanea ostensione, e in pompa magna, del dito medio. Un’etichetta seria, inoltre, ha rapporti privilegiati con agenzie di booking e uffici stampa (o li ha entrambi in casa), con relativi, possibili benefici – non sicuri: c’è sempre l’imponderabile – per la carriera di chi ad essa si lega. “Pare facile, legarsi”, dirà qualcuno. Giusto. Se tutti quelli che raccolgono esclusivamente due di picche, però, provassero a interrogarsi sulle loro carenze, invece di attribuire ogni colpa all’altrui impreparazione, a presunte mafie e caste, alla sfiga, al destino cinico e baro e/o alle cavallette di belushiana memoria, ci sarebbe un po’ più di selezione e si starebbe tutti meglio. Il classicissimo “uno su mille ce la fa” è sacrosanto, ma ogni tanto sarebbe il caso di dire che, dei novecentonovantanove che non ce la fanno, una buona percentuale è perfettamente consapevole di non potercela fare perché non vale nulla… eppure insiste, andando così in qualche modo a seminare ostacoli sul cammino di quelli che qualche chance l’avrebbero. Sarebbe sufficiente limitarsi a suonare in cantina o per gli amici e non volere per forza esibirsi su un palco, pubblicare dischi, leggere il proprio nome sui giornali… ma come biasimarli, visto a quali monumenti all’inconsistenza arride di norma il successo? Eh, sì, è proprio un mondo difficile, come cantava una dozzina di anni fa Tonino Carotone.