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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Giovani Wannabe dei Pinguini Tattici Nucleari

Ecco come i Pinguini Tattici Nucleari hanno dato vita al loro inno generazionale destinato a non esaurirsi nel tempo di una semplice stagione estiva.
A cura di Federico Pucci
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Ci sono canzoni che fluttuano nell’etere per una stagione, e poi scompaiono quando altre faccende per altre stagioni ci assillano. E poi ci sono canzoni che restano nel tempo, e continuano ad aggrapparsi all’orecchio per mesi e mesi. Giovani Wannabe dei Pinguini Tattici Nucleari, uscita un anno fa a maggio, avrebbe potuto fare la fine di tante canzoni di successo, forti sotto il sole e dimenticate al primo cadere delle foglie: invece, nonostante avesse già raggiunto il primo posto della classifica FIMI dei singoli nell’ultimo scorcio della scorsa estate (dal 26 agosto all’8 settembre), quella classifica ha deciso di non abbandonarla più, e nel frattempo accumulare cinque dischi di platino.

Che il pezzo volesse arpionare la memoria e non mollarla più si poteva intuire fin dalle primissime note: un synth basso e belante, che potrebbe ricordare l’organetto nasale di We Found Love di Calvin Harris e Rihanna, ci detta una melodia di cinque note che disegnano un certo ritmo sincopato: ta-ta tà, ta-ta tà, tà tà; tanto basta per inoculare nel cervello il cromosoma metrico della canzone. Perfino mentre la cassa batte dritta, nell’arrangiamento rock elettronico del brano, comunque quella cellula sincopata di ritmo, fatta di passi in avanti e indietro, non si schioda dalla melodia e dall’accompagnamento. Non solo, il giro di accordi principale della canzone rispecchia quel ritmo alla perfezione: nella sua semplice processione di quattro accordi senti insieme risoluzione ed esitazione, un passo in avanti e due indietro, prima di ripartire. Puoi sentirlo dovunque questa progressione sia stata utilizzata, in Adam’s Song dei blink-182 così come in Duemilaminuti di Mara Sattei, dalla Taylor Swift gotica di folklore alla Beyoncé angelica di Halo: è un giro che vuole dare speranza, ma non prima di aver aperto una voragine. Questa successione – che nel brano dei Pinguini Tattici Nucleari assume le sembianze di Re, Mi minore, Si minore, Sol – è usata normalmente nelle ballad che vogliono dosare inquietudine e soddisfazione e soprattutto, come nei migliori loop del pop, avviare un moto perpetuo.

Il colpo di genio di Riccardo Zanotti (e Marco Paganelli, che firma con il leader dei PTN, e co-produce insieme a lui ed Enrico Brun) è usare il moto ondoso di questo ritmo e quest’armonia per costruire un inno da stadio: non epico e sontuoso, ma a misura d’uomo, che faccia sentire la fatica dell’ascesa piuttosto che le fanfare dell’arrivo. Come sentiamo la fatica di una persona che non trova mai il proprio posto nel mondo e infatti preferisce la pioggia d’estate? E come possiamo partecipare noi tutti di questo? Il testo ci fornisce qualche indizio, trattandosi di un tour de force del registro poetico zanottiano a metà fra commedia ed elegia: contrasti (“do il tuo nome a un uragano tropicale”), sorprese (“sei un paesaggio pure tu”), calembour (“si nasce soli e si muore solisti”), citazioni (“sei la storia, Marc Bloch”), e tutte e quattro le cose messe insieme (“figli dei fiori del male”). Ma lo sforzo continuo di chi non smette mai di cercare, questa fuga da sé stessi (“portami ovunque, basta sia lontano da me”) l’avvertiamo nell’architettura stessa della canzone, perché è intessuta nella melodia di ogni sezione: ogni frase cantata da Zanotti è una scarpinata lungo la scala maggiore fatta di tanti gradini ma anche di salti, una maratona in continua salita e discesa di ottava in ottava, portandoti dal punto più basso a quello più alto (da “le tue foto con ME” a “non riesco a non guarDARti”) e viceversa (da “GIOvani WANnabe” a “ti dedico le autostraDE”). Sono viaggi, letteralmente, con una destinazione che non è il mare ma è la nota di partenza all’ottava superiore – quasi sempre – o inferiore. E quando ci concede di scendere, Zanotti? Ovviamente nel ritornello: quando, usando il trucco più vecchio del mondo, il frontman alza il volume e ci costringe a cantare l’acuto in coro.

Perché “ci” costringe? Perché nell’astutissima scrittura del brano, la storia di quei “noi due” di cui parlano le strofe d’un tratto raggiunge una sufficiente vaghezza e universalità da trasformare la prima persona plurale intima in un gruppo (grande all’incirca come la gradinata di un palasport) che partecipa a una seduta psicanalitica collettiva. Nel passaggio dal pre-ritornello al ritornello, quei due colpi sincopati di cassa e tom seguiti da un rullante (sempre il solito gene ritmico del brano, implacabile) sono la versione da stadio di una chiamata a raccolta: da questo punto in poi – ci dicono questi tre schiaffi di batteria – vi toccherà cantare in coro, perché tutto questo vi riguarda.

Come ha raccontato in alcune interviste, infatti, i “giovani wannabe” per Zanotti non erano soltanto i protagonisti di questo testo, ma una generazione intera (“la cosiddetta generazione Boh”), un segmento indefinito di popolazione tra millennial e generazione Z cresciuta con le guerre lontane e sopravvissuta alla fine della storia, che sarebbe dovuta arrivare dopo la caduta dell’URSS, stando a Francis Fukuyama. Il frontman dei PTN ha il giusto senso dell’empatia da trasformare “io e tu” in un “noi” più generale. Ma non basta questo per chiamare tutti a raccolta, serve uno slogan e Zanotti, per questi ha un fiuto eccezionale: così conia un nuovo significato di “wannabe”. Nell’uso gergale il termine non sarebbe esattamente lusinghiero: “wannabe” è chi “vorrebbe ma non può”, guardacaso obiettivo non esattamente autoironico di tutt’altro tormentone, ben più salace.

Zanotti, invece, ha parlato chiaro: “Generalmente, wannabe ha un'accezione negativa ma, nel nostro caso, vogliamo attuare una riappropriazione culturale e dargli una connotazione positiva, perché in un mondo che non trova posto per noi, non ci resta che essere dei wannabe e immaginare di poter diventare quello che vogliamo, scrisse nel comunicato stampa del brano. E noi potremmo azzardare che questa riappropriazione sia riuscita, visto il picco di ricerche del termine a maggio del 2022, alla faccia delle cinque Spice Girls. Manca soltanto una cosa per compiere il messaggio del brano, e contemporaneamente garantirgli una lunga vita discografica: ritrovarsi di fronte a centinaia di migliaia di spettatori, in arene sempre più grandi, e invitarle gentilmente a cantare in coro “noi siamo giovani wannabe” poco dopo l’inizio del live, quando il metaforico ferro è ancora caldo. Ed è esattamente quello che i Pinguini hanno fatto nelle ultime due estati, attraversando il Paese intero con eventi man mano più partecipati (l’ultimo, a mo’ di gran finale del recente tour negli stadi, il 9 settembre all’RFC Arena di Reggio Emilia). Di palazzetto in palazzetto, di festival in festival Giovani Wannabe è stato proposto nelle battute iniziali, e – si direbbe – per un motivo preciso: nonostante l’energia da inno e una cassa in quarti estiva, nel suo giro ondoso e nella sua melodia ginnica, Giovani Wannabe ci invita a continuare a cercare un senso, a continuare a “volere” qualcosa. Possibilmente, un’altra canzone dei PTN in scaletta. E, finito il concerto, un’altra canzone dei PTN su una piattaforma streaming. E così, 63 settimane dopo, la generazione Boh schiaccia di nuovo play.

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