Perché non riusciamo a toglierci dalla testa 29 settembre di Lucio Battisti (o dell’Equipe 84)
Quando parliamo di una “canzone”, pensiamo (almeno) a due cose: la scrittura e composizione del brano, e la sua interpretazione registrata su supporti magnetici per il nostro ascolto. Non è una distinzione oziosa se, ancora oggi, i premi Grammy distinguono chiaramente tra Record of the Year (incisione dell’anno) e Song of the Year (canzone dell’anno). E se cerchiamo le ragioni del successo di 29 settembre, dobbiamo distinguere anche noi tra “canzone” e “incisione”.
Oggi, a più di 50 anni di distanza dai fatti, la versione di 29 settembre cementata nell’immaginario è senz’altro quella contenuta nel primo, omonimo album di Lucio Battisti (mai pubblicata come singolo). La fortuna commerciale l’ottenne però la pionieristica registrazione psichedelica dell’Equipe 84, che nella primavera del 1967 – riportano gli annali – conquistò per cinque settimane il primo posto della leggendaria hit parade. La storia non ci offre la controprova per scoprire quale sarebbe stata preferita dal pubblico del tempo, se la lettura elegantemente barocca di Battisti, o quella caoticamente fluo di Maurizio Vandelli e soci, ma concentrarci sulle somiglianze e differenze può aiutarci a capire perché sia l’una che l’altra siano diventate un classico che ancora oggi cattura l’orecchio.
Che 29 settembre sia stata una piccola ma esplosiva rivoluzione nella canzone italiana è stato detto e ridetto: da una parte Battisti costruisce la composizione su poco più di tre accordi disposti in circolo, trasportando nella nostra musica qualcosa di molto più vicino al vamping (come si definivano i “loop” di accordi negli anni ‘60) tipico del soul di Sam Cooke e Otis Redding che non delle nostre tradizionali progressioni armoniche, lasciando che siano le dinamiche (la diminuzione o aumento di volume, insomma) e i famigerati hook di cui tanto si è parlato in questa rubrica a catturare l’attenzione dell’ascoltatore e a guidarlo in un percorso; dall’altra Mogol scrive nel testo il resoconto di un adulterio che è inusitato e particolare non solo per la schiettezza o per l’assenza di conseguenze morali per la voce narrante, ma anche per la disposizione temporale degli eventi, con il passato dell’antefatto e il presente dell’incontro con la donna tradita collocati nella medesima dimensione. Sia con la musica, sia con le parole, la canzone non racconta tanto una storia, quanto uno stato d’animo. Forse è questo che intendeva l’autore delle note interne dell’album Lucio Battisti quando per 29 settembre parlava del “pennello di Battisti e Mogol” che dipinge “un clima di leggera follia”. Già nel suo codice genetico-musicale, insomma, la canzone presentava un grado di novità che il pubblico italiano era forse pronto a ricevere alla fine di un decennio di mutamenti demografici, culturali ed economici: anzi, riconoscere gli elementi accattivanti è come vedere dove un nuovo tipo di pop ha messo radici.
I meriti dell’arrangiamento di 29 settembre dell’Equipe 84 sono stati strattonati da una parte e dall’altra, tra Maurizio Vandelli, il produttore Paolo Ruggeri, addirittura Mogol, ma a noi non importa trovare il bandolo di questa matassa: chiunque abbia deciso, ad esempio, di inserire la voce di un annunciatore radiofonico sapeva che il tempo del ricordo del tradimento e del non-pentimento (il 30 settembre, insomma) era più importante nell’economia emotiva del brano, che non può essere ridotto al resoconto di un fedifrago. Questo annuncio avvera quello che in modo assai più sottile Battisti ci fa capire con la musica ipnotica della sua versione, specie l’arpeggio di chitarra e i tocchi ammutoliti dell’orchestra: è mattino, il protagonista si è appena alzato, ascolta a spezzoni la radio e ancora confuso cerca di far diradare la nebbia (probabilmente alcolica) della sera prima.
Da qui, le due incisioni prendono due strade diverse. L’Equipe segue la direzione indicata da Revolver e Pet Sounds (non ancora Sgt. Pepper’s che sarebbe uscito mesi dopo), cioè “suonano lo studio”, e tra sovraincisioni di cori, clangori di pianoforti, folate di archi e mellotron, riempiono di colori tutti gli spazi possibili, sfruttando appieno l’innovativo registratore a 8 piste appena comprato dalla Ricordi – bisognerà aspettare il 1968 e l’album Stereoequipe per sentire una versione stereofonica di 29 settembre in tutta la sua gloria “pluridimensionale”, come diceva una nota sulla copertina di quel disco. L’effetto è davvero di “leggera follia”, neanche tanto leggera: la canzone conserva tutti i ganci melodici della scrittura di Battisti, che avranno senz’altro aggrappato il pubblico, ma a colpire l’ascoltatore sarà stata anche la ricchezza spropositata di energie, che dal racconto adulterino tolgono ogni giudizio: è veramente una canzone per i ragazzi di una nuova generazione, libera dai tabù dei genitori.
Dentro la barocca ma minimalista gabbia pop della versione di Battisti, invece, alcune ombre si proiettano nella distanza. Approfittando anche qui della ripresa stereofonica e delle otto tracce, la canzone disperde suoni nello spazio circostante, quasi come i proverbiali uccellini intorno alla testa di un cartone animato che ha preso una botta. Senza ulteriori orpelli, possiamo anche apprezzare il falso movimento degli accordi: scendendo abbastanza speditamente dal quinto al quarto al primo grado della scala, la progressione ci suggerisce che nulla sta cambiando, tutto è immobile, come il senso di colpa del protagonista. Anche la melodia stessa è quasi inerte, intrappolata in quei glaciali “te” e “me” – forse è per questo che Vandelli saliva di un’ottava per cantarli. “Poi d’improvviso” Battisti scrisse il suo primo grande hook: dopo una giravolta sulla scala di Si♭, quando il tradimento è ancora solo in potenza, arriva questo motivo vorticoso, un’ossessione (musicale o erotica) che sale e scende sulla scala pentatonica maggiore di Mi♭. Lo fa, naturalmente, con la chitarra: perché è proprio su quello strumento (quasi un’estensione del corpo di Lucio) che quella successione di note risulta naturale come bere dell’acqua. Nel ritornello-non-ritornello della canzone, anche l’Equipe arriverà a pronunciare quella melodia, raddoppiandola con voci sullo sfondo: anticipandolo, come un presagio, Battisti sapeva che la fortuna del pezzo stava tutta lì.
Mentre chitarra, orchestra e voce intonano in coro queste dieci magiche note, tenendosi per mano felicemente ignare delle conseguenze dell’adulterio, sullo sfondo si delineano però conseguenze inattese: arpeggiati e soffiati in direzione opposta alla melodia dominante (e non a caso) gli accordi disegnano nei bassi una lieve ma inesorabile discesa verso l’agrodolce accordo di Fa minore 7, in una versione imperfetta di quello che i jazzisti chiamano “line cliché” (lo sentiamo in altre canzoni pop di perdizione, come Michelle dei Beatles). Il dubbio che qualcosa non vada (letteralmente) per il verso giusto è stato suggerito: il protagonista non pagherà le conseguenze morali, per ora, ma è stato lasciato un segno indelebile, come dice con forza la chitarra che stramazza gli ultimi accordi discendenti alla fine della seconda strofa, prima di un bridge strumentale che ci porta al presente.
“Mi son svegliato”, cantano Battisti e Vandelli, ma noi sappiamo che tutto quello che è stato narrato nei due minuti precedenti l’abbiamo visto nel ricordo annebbiato di chi ancora non è sceso dal letto: a questo punto, il motivo di dieci note diventa la filastrocca (pentatonica, come sempre) di un bambino che non vuole pagare per i suoi errori, incosciente del dolore, proiettato follemente in avanti. E proprio sul finale, per quanto con stili così diversi, le due interpretazioni concordano: da una parte i cori dell’Equipe, dall’altra gli arpeggi invertiti dell’orchestra coprono progressivamente il suono di questa gioiosa lallazione, sottolineando quella discesa di cui si parlava. E mentre la canzone sfuma (come non succede più, al giorno d’oggi) resta l’impressione che il protagonista si sia smaterializzato nel suo stesso disimpegno, un’ombra di quella libertà che andava professando. C’è solo una soluzione per non lasciare l’amaro in bocca: riascoltare la canzone da capo, farsi catturare di nuovo da quel mulinello di note, rimandare indietro al disco il proprio “na na na”. Anche questa, tutto sommato, è una chiave per il successo.