Nell’ultimo weekend, nella Faenza che gli ha dato i natali e che, con sporadiche eccezioni, l’ha sempre ospitato, il MEI – l’acronimo sta, come ben noto a chiunque segua le vicende musicali italiane, per Meeting delle Etichette Indipendenti – ha spento le luci, in via definitiva. L’ha fatto a testa alta, nonostante il blocco della linea ferroviaria Bologna-Rimini per le intere giornate di sabato e domenica avesse suscitato più che comprensibili timori di scarsa affluenza di pubblico, con la consueta sarabanda di appuntamenti di ogni genere che si accavallavano: concerti (gratuiti) sui palchi innalzati in più angoli del centro storico, incontri, presentazioni di dischi, libri e quant’altro, premiazioni, convegni; di tutto e di più, con il sostegno di condizioni meteorologiche ideali e un’atmosfera di generale serenità. Non sembrava proprio che quello che si stava ballando fosse l’ultimo valzer di un percorso durato più o meno vent’anni, e quel “più o meno” non è una indicazione superficiale ma un fedele specchio della realtà. Il primo MEI risale infatti al 1997, ma nel 1995 e 1996 la stessa organizzazione cittadina facente capo a Giordano Sangiorgi aveva allestito una sorta di festival delle autoproduzioni che del MEI va considerata la prova generale; a seconda di dove si fissi l’avvio, si dovrebbe insomma parlare di ventuno o diciannove anni di vita, e che il “ventennale” sia stato festeggiato l’anno scorso e nel 2015 è una minima forzatura dovuta all’esigenza di destare un po’ di scalpore in più. Scalpore che non mira a nutrire l’ego del vulcanico promoter, ma solo a rimarcare l’importanza di una manifestazione che nel corso della sua esistenza ha dovuto fare i conti con gli infiniti problemi creati dall’inadeguata ricettività delle istituzioni, dalle promesse non mantenute, dalle concorrenze leali e sleali, dalle invidie. A dispetto degli ostacoli trovati (o gettati apposta) sul suo cammino, il MEI ha saputo andare avanti facendo spesso le proverbiali nozze coi fichi secchi; si sono ovviamente registrati errori e tante cose avrebbero potuto essere gestite con maggiore lucidità, ma chi volesse negargli un ruolo centrale nella musica italiana alternativa dell’ultimo ventennio – si pensi anche alle sue iniziative parallele, come l’associazione AudioCoop – mentirebbe ben sapendo di mentire.
Adesso, però, il MEI ha chiuso i battenti. C’è naturalmente la volontà di creare dalle sue ceneri un’altra esperienza, ma è logico che essa dovrà essere diversa, a partire dalla rinuncia al riferimento a quel concetto di “indipendenza” il cui spirito non è morto ma che non ha più il significato che aveva nei ’90 (e oltre), quando l’ambiente underground si schierava in una posizione antagonista alla grande industria discografica; a seguire quella strada sono tuttora in tanti, sia chiaro, ma in molti non si sentono rappresentati dal MEI o non lo ritengono utile alla propria microattività. “Senza dubbio andremo oltre la parola ‘indipendenti’, ormai non più adatta allo stato delle cose”, ha voluto spiegare lo stesso Sangiorgi. “Chiudere un ciclo era indispensabile: servono più risorse dal territorio, un serio riconoscimento su scala nazionale dalla politica e dai media, un continuo rinnovamento e ringiovanimento per rimanere in sintonia con i tempi così come il MEI è stato all’inizio e per buona parte della sua avventura". Un’avventura che è stata decisamente dinamica, con numerosi cambiamenti in corsa dovuti alla necessità di adeguarsi agli scenari che, come tutto il nostro mondo, mutano dannatamente in fretta, ma Sangiorgi ha ragione: basta con i “MEI 2.0” o i “nuovi MEI”, basta con le rinfrescate e i ritocchi, c’era l’obbligo di recidere il cordone ombelicale con il passato compiendo un atto di coraggio. Ora il Rubicone è stato attraversato, alea iacta est, indietro non si torna: c’è da far tesoro di quanto finora imparato e ripartire con slancio, confidando nel concreto appoggio del circuito e delle autorità. E se questo mancasse, o non fosse all’altezza delle aspettative, che ci si inventi almeno una rassegna con un senso culturale e non un pur pirotecnico e stimolante raduno di chiunque voglia esserci.
Il punto, essenziale, è come convogliare tutte le risorse in qualcosa che appaghi gli addetti ai lavori e contestualmente sappia destare l’interesse anche di coloro che della musica sono semplici fruitori. Non un simposio “per iniziati”, ma nemmeno genuflessioni al nazionalpopolare; non un programma d’élite gestito con rigore talebano, ma neppure contentini elargiti a chiunque. Mica facile, siamo d’accordo, e al di là di qualche inevitabile incidente di percorso il vecchio MEI ha senz’altro avuto il merito di riuscire a bilanciare queste urgenze di segno contrario, forse pure perché frenato nelle sue ambizioni ecumeniche dall’obbligo autoimposto di essere soprattutto vetrina/megafono di un ambito specifico come quello degli emergenti e dei pesci piccoli; il rischio è che, una volta rimosse le barriere – ormai anacronistiche, ok, ma se vogliamo rassicuranti – l’eventuale futuro meeting (o quel che sarà) possa assumere i connotati di una confusa accozzaglia, di uno di quei pasticciacci all’italiana dove si tenta di accontentare tutti ma dove, alla fine, nessuno è davvero soddisfatto… con l’eccezione dei detrattori, che si sentiranno ancor più legittimati a muovere critiche. Che la musica nazionale, quella con pretese artistiche e non solo commerciali, abbia bisogno di opportunità di confronto e di scambio è arduo da confutare, ma tale evidenza potrebbe non essere sufficiente a convincere le forze in campo a remare nella medesima direzione. In tal caso, sarebbe una sconfitta per tutti… a partire da Giordano Sangiorgi, che ha rifiutato la prospettiva di vivacchiare serenamente sulla sua creatura preferendo dare un taglio netto a quel che è stato e alzare la posta. Sapremo tra qualche mese, a carte scoperte, quanto la sua mossa sia stata un azzardo.