Doveva essere la fine del 1973, o forse l’inizio del 1974, quando la mia piccola ma “studiata” raccolta di vinili si arricchì per la prima volta di un LP dei Metamorfosi. Mica facile, in quei giorni, che un (più o meno) quattordicenne rimanesse insensibile al fascino del rock progressivo “made in Italy”, e dunque ovvio che provassi a spingermi oltre la sacra trimurti – della quale possedevo già tutto, come ogni giovane appassionato degno di tal nome – composta da Banco del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi e Le Orme. Non ricordo perché la mia brama di conoscenza mi orientò così, sarà stato il suggerimento di un amico o una recensione del settimanale “Ciao 2001”, fatto sta che dal blitz pomeridiano da “Disco Boom”, negozio scomparso ormai da ere geologiche che aveva sede nella centralissima Via del Tritone, ritornai con due 33 giri: “Antologia” degli Era di Acquario, venduto a una cifra immorale una ventina di anni dopo, e “Inferno” dei Metamorfosi, che invece rimane tuttora su uno dei miei scaffali nello splendore della sua copertina apribile. In parecchi mi hanno offerto bei soldi, per quel Vedette VPA 8162 in condizioni perfette, ma l’idea di disfarmene non mi ha mai sfiorato; anzi, a lungo ho cercato di procurarmi una copia dell’unico altro 33 giri realizzato nei ’70 dal gruppo romano (“…E fu il sesto giorno”; Vedette VPA 8168, 1972), al tempo già di non agevole reperibilità, riuscendo a centrare l’obiettivo senza esborsi traumatici ma non senza un pizzico di delusione… perché, ok, l’esordio dei Metamorfosi non è in assoluto malvagio, ma non regge il paragone con “Inferno”.
Suddiviso in due suite di dodici parti per quaranta minuti complessivi, che nelle ristampe in CD sono state logicamente accorpate in una sola, “Inferno” si ispira direttamente alla prima cantica dell’opera del Sommo Poeta, della quale fa suoi il tema di base del viaggio attraverso l’Ade e varie immagini specifiche, alcune fedeli ai modelli storici – da “Caronte” a “Lucifero” – e altre attualizzate al sentire di quei giorni: si pensi a “Spacciatore di droga”, “Violenti” o “Razzisti”, i brani più espliciti nell’azzardare – peraltro, con notevole efficacia ed evitando forzature – l’ipotesi di un approccio rispettoso, ma in qualche misura moderno, alla materia. Elementi di spicco nello stile della band, assieme ai testi mai verbosi e non sempre indispensabili (numerose, infatti, anche le tracce strumentali), la voce stentorea del cantante/flautista Davide “Jimmy” Spitaleri e le imponenti tastiere di Enrico Olivieri, funzionali allo sviluppo delle atmosfere tenebrose e ieratiche in sintonia con gli umori del disco. Presentato come avvio di una trilogia, “Inferno” fu invece il provvisorio epilogo della vicenda Metamorfosi: il fallimento della casa discografica portò a breve allo scioglimento, con Spitaleri a tentare con scarso successo di giocare la carta della carriera da solista. Ci vollero un paio di decenni affinché cantante e tastierista decidessero di riunire le forze, sostenuti da una sezione ritmica costituita dal bassista (e chitarrista acustico) Leonardo Gallucci e dal batterista Fabio Moresco. A seguire il rodaggio dal vivo, giunse “Paradiso” (Progressivamente GMP 003, 2004) sospirato secondo atto dotato di spunti di pregio ma parzialmente penalizzato da un’ispirazione un po’ troppo ricercata; “colpa”, se così è il caso di dire, della natura delle questioni affrontate, come accaduto sette secoli fa all’Alighieri? Pur non essendo un’altra incontrovertibile pietra miliare, il “Paradiso” riaccese comunque nei cultori del gruppo e del progressive la speranza di una rapida conclusione della saga; speranza, tuttavia, soffocata dalla notizia dell’ingresso di Spitaleri ne Le Orme al posto di Aldo Tagliapietra e non riaccesa più di tanto dall’uscita del live “La chiesa delle stelle” (Progressivamente SR10, 2012).
È stato quindi un bel sollievo vedere arrivare nei negozi, lo scorso 14 ottobre, “Purgatorio” (Ultima Meta/Sony), che ha finalmente liberato i Metamorfosi dal gravoso compito assuntisi quarantatré anni fa. Benché contenga addirittura diciannove tracce (sette in meno nel vinile), questo terzo capitolo – che in realtà avrebbe dovuto essere confezionato come secondo, ma non sottilizziamo – si rivela più agile del suo predecessore; l’approccio sinfonico-classicheggiante è affine, ma la minore ridondanza lo rende più godibile e lo avvicina per qualche aspetto all’album del 1973. Il percorso di ascolto delle tre sezioni nella giusta sequenza narrativa acquista dunque pieno senso: dal rock fosco e sanguigno di “Inferno” si ascende alle suggestioni maestose/estatiche di “Paradiso” passando attraverso le trame “ibride” – a metà fra Terra e Cielo – del “Purgatorio”. Si potrebbe osservare che, man mano che si procede, il viaggio si fa, come dire?, meno “avvincente” e più “estetizzante”, ma non è d’altronde la stessa impressione che si prova leggendo la Commedia? A contare, però, è che l’intreccio fra musica e parole resti evocativo e autorevole, e sotto questo profilo l’ambizioso progetto del quartetto non offre il fianco a critiche di sorta. Ci mancherebbe altro, visto il tempo che ci è voluto per portarlo a termine.