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Meg presenta Vesuvia: “Oggi posso dirmi felice, ho capito di aver seminato bene”

Si chiama vesuvia l’ultimo album di Meg che a Fanpage ha parlato di musica, Vesuvio e nuove generazioni.
A cura di Francesco Raiola
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Meg (ph Mattia Guolo)
Meg (ph Mattia Guolo)

Si chiama Vesuvia l'album con cui Meg torna discograficamente, confermando ancora una volta come sia una mosca bianca nel mondo della creatività musicale italiana. Pop ed elettronica, drum'n'bass e jungle, cantautrice e produttrice, un unicum nel panorama nazionale se si conta anche l'influenza che ha avuto per le generazioni successive. Questa volta, però, Meg ha avuto anche un aiuto da Asian Fake, tramite il direttore artistico Frenetik, alleggerendole il lavoro e aiutandola anche nel lavoro creativo. Sebbene luso del termine magmatico sia ormai inflazionato, questa volta ce ne freghiamo e lo usiamo, perché Vesuvia è esattamente questo, un album che lentamente ma con forza trascina con sé gli ascoltatori, pieno di energia, affascinante nella sua composizione, che si rifà a una semantica naturalistica, parlando si sorellanza, felicità, unicità, facendosi accompagnare da artisti giovani come Nziria e i Thru Collective, ma anche da due artiste come Emma ed Elisa.

In un periodo come questo chiamare un album al femminile ha un senso politico?

Il personale è politico diceva qualcuno, tempo fa, e io ci credo fermamente, nel senso che nel momento in cui tu parli di te, delle tue esigenze, di come stai, di cosa vorresti, delle tue paure, di cosa vorresti cambiare della tua parte più profonda, stai in qualche modo parlando di politica, anche se non esplicitamente. In questo caso il Vesuvio è stato declinato al femminile per una questione personale, artistica: in primis mi faceva piacere avere un alter ego che fosse la vera autrice di questo disco, perché lo sprint finale della lavorazione a questo disco è avvenuto quasi in trance, in automatico, come come se ci fosse stato qualcun altro dentro di me a fare il lavoro al posto mio. Così mi sono immaginata questa persona, questa entità, come se fosse una sorta di mezza strega e mezza guerriera e siccome io sono cresciuta a Torre del Greco, città schiacciata tra il vulcano e il mare, questo vulcano – che noi chiamiamo "‘A muntagna" – è sempre stata parte della mia quotidianità, la sua sagoma è una specie di totem nella mia memoria di bambina. E nonostante ricordi come se fosse ieri i telegiornali che parlavano costantemente di un allarme Vesuvio, per me era casa, una presenza rassicurante: era il posto in cui la domenica andavamo a fare le scampagnate, dove portavamo gli amici in gita.

È un album che segna un ritorno a casa, in qualche modo, quindi?

È un album di ritorno a casa, dove per casa, però, si intende me, Maria. Probabilmente perché io mi sento a casa ovunque, da cittadina del mondo quale sono mi sono sempre sentita apolide rispetto all'Italia, ma napolide rispetto a Napoli: ovunque vada sento che mi porto appresso questo fardello, nel bene e nel male, che è Napoli. Forse è grazie alle mie origini che mi sento a casa dovunque e mi piaceva declinare al femminile questa casa con tutto ciò che di simbolico c'è.

In che senso?

La parte di noi che più ci rende più istintuali, creativi, fecondi, non a caso il terreno vulcanico è tra i più fertili al mondo. E anche rispetto alla fase creativa, credo che il vulcano sia un archetipo: qualcuno mi ha chiesto se fosse vero che vivendo su un vulcano, cioè con la lava che si muove nel sottosuolo, si sente un'energia diversa. Io non ci avevo mai pensato però poi mi sono detta, chissà, forse è proprio questo!

Qualcosa che ti fa stare sempre sul chi va là…

Sempre sul chi va là, sì, che poi questo sentirsi sempre precari è un po' Napoli. Mi ha sempre colpito il fatto di vivere con la paura che improvvisamente tutto ciò che ti era caro poteva esserti tolto. Sognavo di stare a casa con la mia famiglia intrappolata dentro, con me che dovevo salvare le mie sorelle, era una cosa costante però sono sicura che questo tipo di pericolo, che è sotterraneo, sempre sotteso, sia stato anche la molla che mi ha fatto andare affamata a inseguire i miei sogni.

Però non c'è precariato nella tua idea di musica, anzi mi sembri una molto convinta del tuo percorso e di ciò che fa e vuole fare, anche come produttrice. Qual è la tua idea e come la porti avanti?

La produzione del disco è un'altra cosa divertente, perché a un certo punto mi ero resa conto che avevo una decina di pezzi buoni per farne un album. Poi è successo che Daniele, Frenetik, mi abbia contattato, voleva collaborare, così gli ho fatto sentire le canzoni e gli ho detto che avevo un album pronto. L'ha ascoltato e mi ha detto in maniera molto entusiasta: "Fallo uscire con Asian Fake e lavoriamoci insieme". Questa proposta è arrivata in un momento in cui avevo proprio bisogno di questo, di una squadra che insieme a me credesse nel progetto.

Fare tutto da sola era diventato troppo pesante?

Avevo bisogno di non essere sempre e solo io a sobbarcarmi del lavoro. A quel punto Daniele mi ha proposto una serie di collaboratori e avevo bisogno anche di questo, di un confronto, di una contaminazione Per esempio, ci sono poi alcuni pezzi – come "Non ti nascondere", "Scusa se sono felice", "Formiche", "Aquila", "Ciglia" – che sono arrivati in studio con una produzione mia già molto avanzata e altri pezzi invece che sono stati completamente stravolti, è stato buttato via tutto quello che c'era, o quasi, come per esempio è successo per "Arco e frecce" che ho co-prodotto con Daniele o "Solare", che ho co-prodotto con i fratelli Fugazza, che sono stati un incontro stupendo.

Tu hai un'idea molto precisa, jungle, drum ‘n bass, e pop della tua musica, come ti sei trovata a fare questo tipo di lavoro?

I fratelli Fugazza dopo aver vinto le prime timidezze – non me ne ero resa conto, ma loro erano di super fan  – a un certo punto mi hanno chiesto "Ci racconti come è stato quando è nata la drum'n'bass?". Mi sono resa conto che adesso, dopo quasi trent'anni, i ragazzi tra i 20 e i 30 anni stanno riprendendo alcuni movimenti musicali, li stanno reinterpretando, li stanno studiando, un po' come succedeva a noi. Con loro, come gusto e come metodo di lavoro, ci siamo trovati alla grande, così come con Tommaso Colliva, che è stato un altro co-produttore fondamentale del disco: insieme abbiamo co-prodotto "Ciglia", "Grazie", "Scusa se sono felice" e "Formiche", che infatti sono i pezzi nei quali Tommaso mi ha proposto un apporto più umano, quindi di aggiungere al programming un tocco più di calore, che è ciò che lui ha portato in questi pezzi. Poi c'è Daniel Plentz, un batterista brasiliano bravissimo, in "Scusa se sono felice" e in "Formiche". Sulla mia produzione in "She's calling me" ho chiesto la co-produzione a questo mio caro amico francese che è David Chalmin. Un altro tipo ancora diverso di produzione è avvenuto quando ho chiesto a Frenetik e Orang3 se avessero delle basi nel cassetto da farmi ascoltare e due mi sono piaciute tantissimo e lavorandoci in studio insieme sono diventate "Napolide" e "Forte, fragile".

Metodo usato solo con loro?

No, la stessa domanda l'ho rivolta ai fratelli Fugazza, che all'inizio non volevano farmi sentire niente perché si vergognavano, poi mi hanno fatto ascoltare una base che mi piaceva tanto, ci abbiamo lavorato ed è diventata "Principe delle mie tenebre". È una produzione molto stratificata, il rischio in questi casi è che tutto possa suonare poi un po' slegato, ma il fatto che ci sia la mia mano su tutti i pezzi e una visione già da prima ha amalgamato il tutto. Poi c'è stato anche un ultimo passaggio di Daniele, che su ogni pezzo ha pimpato tutto quello che c'era da pimpare, soprattutto a livello ritmico. Lui nasce come batterista, quindi, per dirti, su "Ciglia", la parte drum'n'bass arrivava solo alla fine del pezzo, quando c'è la parte strumentale, ma lui m'ha detto: "Perché non la facciamo iniziare prima?" e quindi abbiamo costruito tracce di drum'n'bass che entrano ed escono già dalla strofa e il pezzo funziona molto meglio. È stato un lavoro di squadra.

Mi dicevi dei Fugazza, ma che effetto ti fa essere ispiratrice, avere questo peso?

Diciamo che lo sto capendo solo adesso, ci ho messo un po', però secondo me anche anche bello così. A vent'anni ero talmente dentro quello che stavo facendo, che non stavo lì a preoccuparmi di quello che succedeva alla gente, di come mi guardava, di come mi vedevano, ero proprio molto, molto nel lavoro, nei concerti, era proprio un tourbillon pazzesco, quindi lavoravo e basta. E adesso invece il fatto di avere dei ragazzi giovani e meno giovani tra i 20 e i 35 che mi dicono cose meravigliose, di quanto la mia musica li abbia formati, di quanto ancora oggi sia un punto di riferimento, è un momento di raccolto per me, di grande soddisfazione. Ho capito cosa significa "hai seminato bene", anche perché sono tutte persone dal grande talento. Pensa ai Thru Collective (Meg li chiama Thruco, ndr), se oggi avessi vent'anni gli chiederei di entrare nel loro gruppo perché sono esattamente la versione 2.0 di ciò che poteva succedere negli anni '90. Loro, anzi, hanno ancora meno limitazioni, ancora meno schemi. Noi, come i fratelli maggiori negli anni 90 abbiamo spianato forse la strada ai fratellini giovani di oggi.

Quando hai cominciato a capire che c'era un album che stava arrivando e che le canzoni cominciavano a legarsi tra di loro?

Già nel periodo pre-pandemico sapevo che avevo un tot di pezzi che facevano parte del progetto. Io adoro fare questo lavoro, adoro la musica, ma sono un po' una persona molto introversa, non sempre sono disposta ad aprirmi all'esterno, è un lavoro molto faticoso.

Eri così anche a 20 anni?

Lo era anche a vent'anni, sì, ma in maniera diversa, per certi versi meno faticoso, perché a vent'anni volevo con tutta me stessa fare musica, quindi mi  stavo costruendo quel percorso. Abbandonai l'università per farlo, quindi dovevo farlo al massimo, poi erano anche anni diversi, a quei tempi era meraviglioso spostarsi di città in città e trovare gente simile a te, che faceva una serie di cose come te nella tua città: occupare, manifestare in piazza, fare musica di un certo tipo. A vent'anni ti stacchi dalla famiglia, è naturale che ti cerchi un'altra famiglia all'esterno: gli amici, la fratellanza, la sorellanza, il movimento… quella era la mia famiglia, poi si cresce e le varie età della vita richiedono un altro tipo di esigenze, di cambiamenti, la vita si complica, diventa molto meno spensierata, molto più complicata e questo è un lavoro che una buona dose di spensieratezza lo richiede.

Ed è il motivo per cui hai bisogno di tempo per chiudere un album?

Io sono per la vita lenta, se posso me la prendo. Poi ho sempre lavorato da sola, da quando sono uscita dai Posse, quindi anche questo un po' rallentava perché era faticoso. Spero che adesso questa nuova situazione faciliti il processo. Insomma è complicato ma anche di questo ho cercato di parlare nel disco: in "Scusa se sono felice" è quasi come se chiedessi al mondo che sta andando a rotoli scusa se sono felice, quasi mi sentissi in colpa.

In varie canzoni però sento felicità.

Perché nonostante tutto mi sento felice, mi sento molto fortunata nel considerarmi felice, guardo sempre il lato positivo delle cose. Un po' perché sono fatta così, ma anche perché, per esempio, non vivo sotto un regime, non vivo sotto i bombardamenti come in Ucraina, pensa a quello che è successo e sta succedendo in Iran, la Siria… dove guardi guardi c'è una tragedia, però io ho la fortuna di non trovarmi al centro di tutto quello, il che non significa voler negare questa tragedia mondiale che sta accadendo, anzi, proprio perché ne sono consapevole, accolgo con ancora più energia i momenti di felicità che arrivano. È quasi una specie di omaggio alla vita che mi sento di fare in maniera spontanea.

E cos'è che ti incuriosisce musicalmente, oggi?

Mi piace molto tutto ciò che ha a che fare con la batteria, che sia jazz o elettronica, mi piace tutto ciò che ha un faro acceso sulle ritmiche. C'è questo gruppo, si chiamano Trrma, è un duo, elettronica e batteria, ma mi piace molto anche Flume e dal punto di vista ritmico mi piace tantissimo Lorenzo Senni, mi ha fatto impazzire questo suo progetto in cui non ci sono le batterie, ma non ne senti la mancanza perché ci sono questi synth (li imita, ndr).

Emma ed Elisa, invece?

Quello con loro era un pezzo sulla sorellanza, sull'importanza dell'amicizia femminile e quindi mi divertiva l'idea di avere due donne che cantassero insieme a me. Ero molto dell'idea che le mie amiche più care sono quelle che hanno dei lati completamente diversi dai miei e proprio per quello mi ispirano e siccome Emma ed Elisa sono molto diverse da me – ma proprio per questo abbiamo delle cose che in qualche modo ci arricchiscono l'un l'altra – le ho fatto questa proposta ed entrambe hanno risposto in maniera iper affettuosa, con grande slancio: hanno registrato le loro parti e il pezzo ha contribuito a dare questa sensazione di stare in un bosco, nella natura, tutto al femminile.

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