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Mannarino: “V è un disco sulla bellezza, contro il potere che vuole cancellarla”

Dall’Africa al Brasile, passando per Roma. Ul percorso di Mannarino si spinge sempre più verso un’ancestralità che va oltre le sovrastrutture del mondo contemporaneo, facendolo sia con le parole che con la musica perché questo, come spiega a Fanpage.it è “un disco di ispirazione tribale, ancestrale e animista”.
A cura di Vincenzo Nasto
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Mannarino (ph Ilaria Magliocchetti Lombi)
Mannarino (ph Ilaria Magliocchetti Lombi)
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Il titolo dell'ultimo album di Mannarino, "V", sembra far riferimento a uno dei capolavori della Letteratura americana contemporanea, ovvero all'omonima opera di Thomas Pynchon che, come la "V del cantautore romano fa riferimento a varie figure fondamentali presenti all'interno, dal Vulcano, a La Valletta, passando per alcune delle donne. Un po' come avviene, appunto, nell'ultimo album del cantautore romano che con quella V racchiude vari mondi. Sì, perché l'album è un percorso che si muove su vari livelli, quello del femminile, innanzitutto, ma anche quello della natura e di un mondo senza confini che si materializza anche nelle sonorità che pescano dal Brasile, amore del cantautore, e dall'Africa, mescolando le lingue senza lasciare la romanità che in questi anni lo ha caratterizzato. Un lavoro ancora più maturo per Mannarino: un album che mescola oscurità, misticismo, ritmo, suoni tropicalisti e "tamburi, tamburi, tamburi".

Rispetto ai progetti precedenti, "V" sembra rivolgersi a un immaginario, sia linguistico, che visivo, completamente diverso. Un viaggio nella natura, in cui il termine "Lei", oltre a essere il titolo di uno dei brani nella tracklist, assume significati profondi, quasi indigeni. Su tutti la descrizione quasi ancestrale della donna. Puoi raccontarci queste differenze?

In passato sono partito dal folk e sono andato indietro, in questo sono ritornato alle radici e sono andato ancora più indietro. Il discorso era quello di mettere in pratica tutto questo nella scrittura del disco e di non usare una forma razionale e occidentale in qualche modo, qualcosa di culturale legata al Logos, alla ragione, perché il disco era questo: l’irrazionalità, la figura della donna e la natura. Era proprio questo andare avanti nella mia ricerca per liberarmi ancora di più di quelle che in qualche modo vivo come strutture sociali o catene. In questo la forma ti aiuta molto ad alienarti, qui ho cercato sia nella ricerca del suono che nei testi di andare ancora avanti, di non spiegare, di proporre sensazioni più irrazionali. Una ricerca sui suoni e sulle parole che parlassero a un altro livello e questo è diventato un atto pratico che è diventato, a sua volta, non solo artistico ma anche politico secondo me.

La lettura del disco è varia, sia nella parte musicale che in quella testuale. C’è da una parte il ruolo dell’uomo e della donna in tutto l’album che si dipana lungo il progetto, ma anche la migrazione e la paura del cambiamento. Si legge anche nel sincretismo musicale che proponi: come si unisce tutto questo concept e in che modo ti interessa venga recepito il messaggio?

Io penso che ci sia un livello di comunicazione per ogni aspetto della nostra vita, per ogni luogo che attraversiamo, per il modo in cui influenza il nostro pensiero. Stessa cosa per le persone. Spiegare i dischi e spiegare le canzoni non è così potente come ascoltare e vivere le canzoni, ciò che rimane sottotraccia, a livello epidermico del brano, è più forte dei mille discorsi che posso fare io in questo momento. Volevo scardinare un po’ la forma canzone, trasporre queste idee nella pratica, nella prassi tecnica di affrontare la canzone nel momento diverso. Voglio parlare dell’irrazionalità, della fantasia, della tribalità, ma io devo essere il primo indigeno. Ho fatto quindi una ricerca dentro di me, anche per perdermi.

Una ricerca quasi poetica, come quella della protagonista del romanzo omonimo Iracema, che ha influenzato brani come "Agua". Un racconto che cerca di unire prosa e poesia.

Quel libro è scritto in modo molto poetico, irrazionale perché ha tutti i riferimenti alla giungla e agli spiriti, c’è l’incontro tra il conquistador e l’indigena. La prima scena è eloquente, perché lei si fa un bagno sotto la cascata d’acqua vergine, mentre c’è il conquistador che spia. C’è l’occhio dell’Occidente che la vede come una preda, una visione che affronto nel disco. Il tema della bellezza naturale, condizione naturale dell’essere umano, si pone antistante al potere, che ti fa credere che la bellezza non esiste. Ti suggerisce che dentro hai il peccato, un potenziale assassino da controllare. Ho cercato di andare indietro, fino al punto in cui l’uomo e la donna sono figli della natura e sottostai alle sue stesse leggi. Se io ho una carta d’identità e faccio parte dello stato, sono un cittadino. Ma se io faccio parte della natura, di quest’opera incredibile e meravigliosa, io sono un dio. Io faccio parte di qualcosa di divino, di qualcosa che non sappiamo come chiamare ma sappiamo che è perfetto. Lì io ho trovato la forza, nel toglierci questi abiti, anche solo per l’ascolto di un disco. Non sono solo una spugna, non sono solo ciò che la cultura ha fatto di me, ma ho tante altre strade da percorrere. In questo disco non c’è monoteismo, c’è un panteismo. Non c’è più lo stato.

Quando canti “scappate, sta arrivando il futuro”, sembri sottintendere tutto il concetto di contaminazione dell’album…

Riguardo al futuro, c’è questa paura in canzoni come “Congo”, ma in verità la storia racconta dell’ultima principessa bianca e dell’ultimo rifugiato che stanno facendo l’amore. Un’altra paura che si ha di questo venire, sembra che si voglia fermare la vita. La vita non si ferma con i muri, con le leggi. Nulla può fermarla. Dall’organismo monocellulare che ha creato l’universo, dobbiamo creare a nostra volta la vita, dobbiamo perpetuare questa vita. E qui in Italia sta arrivando il futuro, e il futuro è l’Africa. Ma il futuro viene da molto lontano. Per il titolo non volevo usare parole di senso compiuto razionale. Perché un disco di ispirazione tribale, ancestrale e animista, non poteva avere un titolo di senso compiuto.

"Ballare è una mossa politica" può essere una provocazione per il momento attuale?

C’è stata un certo punto in Occidente una scissione tra corpo e anima, dal mondo delle tenebre di Platone, da dove poi è nato il cristianesimo, una mera copia di questo mondo perfetto. L’Occidente ci dice che il corpo è qualcosa da tenere a bada, mentre la filosofia, la ricerca e la scienza, tutta la mentalità positivista e la tecnologia. Ci siamo persi tutta una parte molto importante, anzi vera, dell’essere umano, che è quella del corpo. Non c’è una scissione, siamo un tutt’uno. Ci sembra così difficile pensarlo, perciò ballare è una cosa politica.

Questi mesi potevano essere sfruttati meglio sulla questione live secondo te? Il tuo pubblico è molto fisico, cosa ne pensi?

Sto rimandando concerti, fino a quando non potrò di farne veri. C’è da dire una cosa però: ho avuto conoscenti e amici che hanno perso familiari, quindi non mi sognerei mai di dire voglio andare a suonare finché si rischia la vita. Mai dirò che è un’ingiustizia, anche se ho voglia di suonare. Però c’è una cosa che mi ha fatto incazzare: a un certo punto c’erano i centri commerciali aperti e le scuole chiuse, le chiese aperte e i concerti non si potevano fare. Questo è un chiaro messaggio che viene dato dall’alto su ciò che conta e su cosa conta meno. Ma fino a che questo messaggio viene dato a me che ho gli anticorpi per questo messaggio mortifero che uccide l’essere umano. Ma quando dici a un ragazzino delle scuole medie che non può andare a scuola ma può passare la giornata intera nel centro commerciale, lì la situazione è molto più grave.

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